venerdì 7 ottobre 2011

TIPICAMENTE FRIULANI - di Gianfranco D'Aronco


Tipicamente friulani
di
Prof. Gianfranco D’Aronco

Presidente
COMITATO PER L’AUTONOMIA
 E IL RILANCIO DEL FRIULI


Udine, ottobre 2011
Mi è stato facile impadronirmi dello slogan dovuto ai pubblicitari della Regione, e adattarlo al caso mio: essi si riferiscono al vino (possibilmente “doc”) e io agli uomini.
Cosa significa oggi essere tipicamente friulani? Essere “fieri e tenaci della loro nazionalità”? Ahi, la frase è di Francesco di Toppo, che scriveva nell’800 e si riferiva al ‘300 del patriarca Bertrando.  E allora? E’ molto noto un componimento poetico che comincia con “Su, su, su, Venzon Venzone”, e prosegue inneggiando: “su, fedeli e bon furlani, su, legittimi italiani”, e via dicendo. Vi si tratta della vittoriosa resistenza, opposta alla Scluse (Chiusaforte) contro i tedeschi di Massimiliano d’Asburgo da un Bidernuccio, comandante di 40 venzonesi (dotati per la bisogna di palle di piombo, fatte in casa da Anastasia di Prampero fondendo il vasellame di peltro). Eravamo nel 1509. I tedeschi ebbero la loro rivincita qualche anno più tardi. Ma intanto il Bidernuccio ebbe in compenso una pensione dal Senato di Venezia: combatteva egli infatti per “il possente e fier Leone” (che vedi caso aveva occupato il Friuli cent’anni prima). Altri tempi comunque. Ma forse è ancora valido il riconoscimento che la lingua friulana “è tanto trista, quanto sono buoni gl’ingegni e quanto grande è il valore di quella provintia  onoratissima”? Ahimè, questo scriveva Pietro Paolo Vergerio, ed eravamo a metà del ‘500. Che i friulani siano “vehementi,  solleciti, terribili”? Ma il giudizio è di Giovanni Botero, e risale alla fine dello stesso ’500.
Non sono un erudito né un archivista. Per imbattermi in altri positivi apprezzamenti sui nostri corregionali, debbo fare un grande balzo (i miei 23 lettori, uno in meno  del Manzoni, dovranno accontentarsi).  Siamo niente po’ po’ di meno che nel 1922, quando un personaggio politico, poi diventato popolare, riferendosi ai suoi della “regione friulana” dichiarava che essi “sono perfetti per sobrietà e compostezza, austerità e serietà di vita”. Non male. Ma forse questa e le frasi precedenti erano tutte interessate, ché “nancje il cjan nol mene la code di bant” (nemmeno il cane mena la coda per niente).
Altro capitolo di tutt’altro sapore. Poco lusinghiero per noi il detto popolare, anch’esso di provenienza della Serenissima: “Dime ludro, dime can, ma no sta dirme furlan”. Il termine “ludro”, ci spiegano i vocabolari, vuol dire “furfante”, “scostumato” e simili perle. E’ derivato forse dal tedesco “Luder” (“briccone”), che a orecchio mi richiama “lurido”: il “leader” di partito, nonostante i tempi d’oggi, non c’entra. Innocuo invece un altro detto popolare sempre vivo, anch’esso di provenienza lagunare, che definisce gli “udinesi castellani, col cognome de furlani”: meglio certo dei “visentini magna gati”, e dei “veronesi tuti mati” (per non parlare dei “cremaschi fa cogioni”).
Simili giudizi sfavorevoli, provenienti dal di fuori, si voglia o no hanno lasciato il segno. Fanno parte di quello che è stato chiamato il “blasone popolare”, diffuso un po’ in tutti i paesi, anche inter nos. Vedi gli stessi venzonesi, chiamati “gosârs” (dal gozzo), i gemonesi “gabodui” (gabbatori), mentre Artigne è tradotta in Tegne” (tigna). Ma sono prese in giro da strapaese, innocenti tutti, da riderci su. Parafrasando gli inglesi, diciamo che solo i friulani hanno diritto di criticare i friulani. Rimane il fatto che i giudizi venuti invece dal di fuori sono la spia di un atteggiamento di superiorità, risibile quanto si vuole ma che, quando preso sul serio,  mortifica i destinatari. E – qui ti voglio – esso contribuisce a creare negli oggetti di scherno il ben noto complesso d’inferiorità, che caratterizza in genere  i “fedeli e bon furlani”. E’ innegabile, scriveva Giuseppe Marchetti nel 1948, che la Serenissima ha sempre adottato la politica di trattare i friulani come povera gente di razza inferiore. Per cui “i furlans a àn pôre di jessi ridûts,  a àn pôre di semeâ sclapeciocs, int indaûr e ignorante, di fâ brute figure” (i friulani hanno paura di essere presi in giro, di identificarsi con gli spaccalegna, con  gente ritardata e ignorante, di fare brutta figura). E’ famosa una incisione settecentesca del Rampini: un “sotan” col cappello in mano di fronte al padrone, recita: “Per tagiar tuto l’ano e legne e zochi, vegnimo dal Friul nostro paese: la strussia è granda, e se ne chiapa pochi”. Rinterzava il Marchetti: “I furlans a rivarin a persuadisi ancje lôr de superioritât e de potence dai parons e a  adatâsi al distin di ubidî”, e persino “a simiotâ il custom e il lengac’ dai parons” (I friulani arrivarono a persuadersi anch’essi della superiorità e della potenza dei padroni e ad adattarsi al destino di ubbidire, e persino a scimmiottare il costume e la lingua loro). Insomma il “credere, obbedire e combattere”, nato in tempi moderni, non era del tutto una novità.
Ho già avuto occasione nel decorso secolo, a proposito dei complesso d’inferiorità, di sottolineare che il friulano d’oggi si distingue per insicurezza, indecisione, riservatezza, individualismo, limitata fantasia, scarsa espansività, contenuta solidarietà. E ho citato il neurologo Giovanni Pessina, per il quale il nostro tipo “risulta tendenzialmente introverso, inibito, con orientamento pessimistico e conservatore, fondamentalmente timido, portato al sentimento e all’ingenuità, quasi completamente privo delle doti che condizionano il successo sociale” eccetera. Possiamo aggiungere oggi l’analisi di un altro neurologo, Franco Fabbro, autore del fortunato libro, “Il cjâf dai furlans”  (La testa dei friulani). Anche per Fabbro una caratteristica della psiche nostrana è “un diffuso sentimento di inferiorità culturale”. Tale sentimento (e qui vale la pena di una lunga citazione) “dipende da due ragioni. Da una parte esso è dovuto all’impatto – che si è realizzato prevalentemente dal 1870 al 1960 – fra la cultura contadina friulana ‘subalterna’ e la cultura borghese italiana ‘dominante’. Durante questo periodo la cultura dominante non ha manifestato alcuna sensibilità antropologica verso la lingua e la cultura friulana considerate inferiori. La maggioranza contadina doveva lavorare, vergognarsi di essere ‘inferiore’, e – soprattutto a scuola – sperimentare uno dei più tragici fenomeni di colonialismo culturale, ossia quello di sentirsi ‘straniero’ a casa propria. Inoltre in questo periodo storico – a parte isolate eccezioni -  è mancato il sostegno da parte delle cosiddette classi ‘superiori’, come ad esempio della nobiltà, verso i tipici valori della identità friulana”. Il mancato interesse verso la lingua e la cultura proprie, la scarsa fiducia verso le istituzioni e in particolare i “sorestans” sono altri elementi che concorrono a scoprire i caratteri del “sotan”, ovvero del tipicamente friulano.
Temo che a questo punto i lettori abbiano fatto un po’ d’indigestione per le tante citazioni, antiche e nuove. Consoliamoci ora attingendo non ad altre  citazioni, ma a specifiche ricerche di fresca data. Una di esse, pari pari, viene dall’Irlanda del Nord, per bocca di Richard Lynn, docente di psicologia nella università dell’Ulster, il quale ha steso una classifica nata da relativi test. “I friulani con un  ‘Qi’ (quoziente di intelligenza) di 103 sono nettamente i primi in Italia. Non soltanto, ma sono addirittura tra i più intelligenti d’Europa, staccando in maniera netta i meridionali, la cui maglia nera spetta alla Sicilia con ‘Qi’ di 89. Il primato sarebbe da ascrivere “alle radici multietniche e alla vicinanza di regioni come Slovenia e Austria, senza contare la presenza sul territorio di realtà di altissimo prestigio scientifico come la Sissa, l’area di ricerca, due università di livello”. Che sia proprio così? Attingo ai resoconti comparsi su questo stesso giornale nell’aprile 2010.
Affidiamoci ora a classifiche d’altro genere, risalenti ad aprile e maggio 2011. La prima è dovuta dalla rivista specializzata “Tutto scuola”, che si è affidata a parametri indicatori, riguardanti la qualità del sistema d’istruzione in Italia. Non si esprimono opinioni ma si registrano risultanze: su 100 province, Udine è al quinto posto. Altro settore: la gestione dei disastri naturali come il terremoto. Quello del Friuli è rimasto un esempio, come segnalato su queste colonne nel pubblicare i risultati di un convegno a livello universitario, organizzato a Gorizia dall’ISIG (Istituto di sociologia internazionale): due giorni di lavori dedicati allo studio sulle “best-practice” friulane come metodo da applicare all’Europa alpina. Il nostro criterio,  basato sulla partecipazione diretta della popolazione attraverso gli enti locali cui la ricostruzione era stata affidata dallo stato, è stato additato come un esempio di ricostruzione, che purtroppo non ha avuto seguito in altre regioni come l’Abruzzo.
Guardiamoci attorno. Non siamo i più belli del reame, ma neanche  più brutti. Dobbiamo fare tesoro di tutto, delle critiche e degli elogi. Soprattutto è ora che ci si scrolli di dosso la scarsa fiducia in noi stessi, nonché la cattiva abitudine di  guardare con malcelato scetticismo se non con sufficienza ai friulani che operano per far risalire noi tutti in seno alla società. Occorre smettere con la debolezza nel sostenere le proprie ragioni, la ritrosia nel mettere in mostra i propri diritti, la scarsa attitudine ad esporsi in politica e via dicendo. Se pregi e difetti sono di pari presenza,  cerchiamo di eliminare o almeno di attenuare i secondi. In definitiva occorre arrivare a una maggiore presa di coscienza, come a dire sapere quello che noi siamo. “Fintremai che il furlan”, ha scritto Marchetti nel 1949, “nol varà imparât a mostrâ la sô muse cence rispiet uman e cence deventâ ros, nol sarà madûr par governâsi di bessôl; e al sarà di bant pridicjâ autonomiis e imbastî statûts regjonai. L’autonomie si à di vêle prime di dut tal ciurviel e ta l’anime” (Finché  il friulano non avrà imparato a mostrare la sua faccia senza rispetto umano e senza arrossire, non sarà maturo per governarsi da solo; e sarà inutile predicare autonomie e progettare statuti regionali. L’autonomia occorre averla prima di tutto nel cervello e nell’anima). Cominciamo dunque a mettere in luce ciò che abbiamo di buono e soprattutto di cattivo. Qualcuno dirà che potrei cominciare da me. Perché mai? Forse che io ho difetti?

Gianfranco D'Aronco


1 commento:

  1. L'intervento del Prof. Gianfranco D'Aronco è stato pubblicato sul quotidiano IL MESSAGGERO VENETO, edizione di Udine, ottobre 2011.

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