Vorrei introdurre queste
righe di critica alla riforma della sanità e di proposta del
dott.
Walter Zalukar,
primario per molti anni del Pronto Soccorso dell’ospedale di
Cattinara a Trieste, riportando alcuni dati
da un articolo di Gian Carlo Blangiardo intitolato: “Analisi.
Picco di decessi nel 2017, sfida per il welfare e la società”,
in: Avvenire 7 dicembre 2017. Ivi infatti si può leggere:
«
Dalle statistiche dei morti nei primi sette mesi del 2017
(secondo quanto già disponibile da fonte Istat) prende corpo
la convinzione che l’anno che sta per concludersi ci chiederà
ragione del non aver sufficientemente affrontato quei segnali
di debolezza, già evidenti due anni fa, relativi a un sistema
sanitario che tende sempre più a far pagare il prezzo della
sfida sulla sostenibilità dei costi soprattutto a chi è più
fragile, economicamente e sul fronte delle reti sociali e
familiari».
Walter
Zalukar. Ripensare la sanità regionale.
L’ospedale
di Gemona del Friuli chiude. Quale prospettiva?
Così
inizia il dott. Walter Zalukar, il suo intervento,
all’incontro tenutosi all’hotel Carnia il 1 dicembre
2017, intitolato: “Ricostruire la sanità in Alto Friuli.
Criticità e proposte”, riferendosi all’ospedale
di Gemona del Friuli.
«L’ospedale
chiude. Quindi il territorio, teoricamente, doveva andare verso
felici destini progressivi, con un centro di assistenza
primaria ogni 20- 30 mila abitanti, ma senza nessuna
indicazione organizzativa, senza nessuna stima dei costi, con
dati inesatti. Pertanto ben presto questa indicazione normativa
si rivelava essere solo un annuncio: dei contenuti praticamente
nulla. Per esempio a
Trieste, dopo aver inaugurato dei cap che sono rimasti vuoti,
hanno cercato di convincere i medici ad andarci almeno un
giorno alla settimana, ma come avrebbero potuto fare?
Il medico che stava nel rione ‘x’ avrebbe dovuto andare
quel giorno in quel cap, ed i suoi pazienti tutti con l’autobus
a rimorchio. Pertanto il tutto si configurava solo come un
flusso di malati e medici per fare esattamente la stessa cosa
che prima facevano in ambulatorio».
Fra
pronto soccorso e punti di primo intervento: un pasticcio
all’italiana che pesa sui cittadini.
«Ed
andiamo ad una delle cose più tragiche: Il piano di emergenza.
Ci avevano detto che avevano delle formule matematiche per
calcolare il numero dei mezzi di soccorso ottimali. Siamo
andati a cercare in letteratura: mai visto una formula del
genere. Inoltre risulta che nel Friuli Venezia Giulia noi
abbiamo, per 1.200.000 abitanti e 7.000 kmq., 6 automediche e
forse neppure 6, perché a Tolmezzo non l’hanno data e quindi
di fatto 5; nelle Marche, territorio un po’ più grande,
hanno ben 31 automediche, cioè ne hanno una ogni 300 kmq e non
ogni 1300, 1 ogni 250 abitanti e non ogni 205.000 abitanti. Per
quanto riguarda la tipologia degli equipaggi dei mezzi di
soccorso, ci hanno
detto che tutti gli equipaggi saranno professionali. Ma non è
vero nulla. Abbiamo metà delle ambulanze con
personale volontario non dipendente. E qual è il risultato di
questo depotenziamento, lasciando perdere per ora la centrale
unica di Palmanova? Utilizzo per dimostrarlo i dati Sores, cioè
della Centrale operativa della Regione. L’11% degli
interventi in area urbana arriva in meno di 8 minuti che è il
tempo di legge, il tempo normativo. Vuol dire che per codici
rossi e gialli l’85% del soccorso arriva in ritardo. Questo
non era mai successo in questa regione. Nell’extraurbano abbiamo solo il 36% che arriva in ritardo. Ma il
36% vuol dire che 3 persone su 10 sono in strada ad aspettare
oltre magari i 20 minuti prima che giunga un’ambulanza. E
non parlo dell’elicottero, perché staremmo qui fin oltre la
mezzanotte.
I
punti di primo intervento, cioè quello che è diventato o che
dovrebbe diventare il pronto soccorso di Gemona, vogliono dire,
in sintesi, un medico ed un infermiere in servizio, e basta. Il
problema è che se avessero avuto un minimo di scrupolo, almeno
avrebbero messo un numero sufficiente di ambulanze ed
automezzi. Nulla. E per dire che il Pronto Soccorso di Gemona
non serviva ci si è basati su dati falsati».
E
mancano anche dati recenti e rete oncologica. Inoltre per
ripartire si deve ripensare l’assetto istituzionale delle
aziende sanitarie.
«Non
c’è rete regionale oncologica, e così la gente deve andare
in giro a fare chemioterapie, e, per quanto riguarda
il monitoraggio dei tempi di attesa nelle strutture sanitarie,
vediamo che gli ultimi dati per un intervento chirurgico,
risalgono al 31 marzo 2015, il che significa o che non sanno
immettere i dati o che si vergognano a darli.
Ora
noi abbiamo avuto quattro anni veramente bui, e adesso si
impone la ricostruzione e la rinascita del ssr. Non sarà
facile, ci vorranno anni, … come per Dresda che fu distrutta
in poche ore e per ricostruirla ci vollero anni, ed erano
tedeschi … Quindi
bisognerà lavorare su due settori: ridisegnare
gli assetti istituzionali, cioè le aziende, perché come
diceva prima qualcuno non è possibile che una azienda vada da
Gorizia a Latisana, e si sviluppi come un serpente largo 20
chilometri e largo 150, come non è possibile che ci sia una
azienda che abbia una conformazione come la vostra che va da
Tolmezzo, o meglio da Sappada a Codroipo. Non è logico, non
sono territori omogenei».
Limiti
di assetto aziendale, e la riproposizione delle aree vaste,
come elemento di territorialità.
«L’assetto
istituzionale, cioè la geografia delle aziende, è stato
preparato senza neppure una simulazione dei possibili impatti.
E infatti le modalità di lavoro sono eterogenee. Per esempio
nella Bassa, quelli di Latisana e Palmanova lavorano comunque
diversamente dagli altri, e le aziende non sono ancora
veramente unificate. Si dice che solo un terzo del processo è
andato avanti, e ci vorranno ancora 5 o 6 anni, e converrebbe
ritornare indubbiamente indietro. Inoltre vi è difficoltà a
collegare ospedali spoke tra di loro, perché i flussi di
mobilità dei pazienti e delle persone non si comandano con un
tratto di penna.
E
soprattutto il collegamento di questi ormai monconi di ospedali
ha ridotto l’efficacia dei reparti di base, perché non si
può pensare che ad un reparto venga un giorno diretto ed un
giorno non diretto, cioè funzioni a giorni alterni a seconda
degli spostamenti del primario. O i primari non servono ed
allora si aboliscono, o se servono stanno lì ogni giorno.
Gli
attuali assetti istituzionali non fanno riferimento ai bacini
di utenza consolidati nella storia. E quella che dava un quadro
accettabile era la cosiddetta area vasta che, se vi ricordate,
coincideva con le province: la provincia di Udine, quella di
Pordenone, quella di Trieste e Gorizia e Monfalcone insieme.
Quindi
il modello di area vasta consente di progettare
l’organizzazione dell’assistenza in ospedale corredandola
al suo bacino di utenza. E consente di progettare l’assistenza
dell’utenza in ospedale collegandola al suo bacino di utenza.
E questo secondo me dovrebbe essere il messaggio da dare nel
futuro. Ma prima di dire questo, per mesi ho consultato ex
funzionari anche di alto livello della sanità regionale,
operativi pure quando la sanità regionale funzionava; ho
consultato colleghi, e sono tutti dell’idea che l’area
vasta era un progetto intelligente.
Ed
anche nel contesto di area vasta esistono gli ospedali Hub e
spoke, esiste
un ospedale principale ove gli ospedali di base possono inviare
i casi più complicati: Udine, Trieste, Pordenone, dove si
concentra la maggiore complessità di intervento, e quindi si
trovano i reparti di neurochirurgia, e di chirurgia vascolare,
ecc. ecc… Ma non si possono chiudere gli ospedali di base,
non si possono chiudere i reparti di medicina, perché è
ridicolo intasare un ospedale hub con pazienti di medicina
provenienti dal territorio ove i reparti sono stati
smantellati».
Anche
sul territorio l’assistenza deve essere rivista e deve essere
riportata al distretto.
«Anche
sul territorio l’assistenza deve essere rivista.
Dobbiamo superare i cap, che sono solo degli sportelli che
ripetono quello che dovrebbe fare il distretto, e giungere ad
una gestione dei malati che avvenga per processi e non per
competenze. Perché ora si opera per competenze. Per un
problema si telefona ad uno, per un altro ad un altro… e
Telesca è giunta fino a dire che se uno sta male deve prima
autodiagnosticarsi se è codice bianco o se è codice giallo o
rosso, e poi telefonare ad uno od all’altro … Siamo
arrivati a questo, alla follia pura. Quello che
invece bisogna dare ai pazienti è un progetto, e per questo
parlo di gestione per processi che permetta la continuità di
cura e la massima vicinanza delle cure ai luoghi di vita delle
persone. Cioè il
paziente deve essere curato a casa, non può andare a girare
per gli sportelli. Questo è il discorso fondamentale.
E quindi bisogna pensare ad un vero progetto di
distrettualizzazione, perché deve essere il distretto quello
che cura, ma non un distretto pieno di sportelli, perché ci
sono i telefoni, perché c’è il sistema informatico, che non
so se funzioni dappertutto, perché ci sono i telefoni, ed
almeno quelli urbani, funzionano.
In
questo ambito e contesto vanno progettati anche i percorsi di
cura del malato cronico grave, che è quello che ora non vuole
nessuno. Perché il territorio non è capace di curarlo,
l’ospedale non ha più letti… E questo è il malato più
fragile, che ha necessità di cure. Questo dovrebbe essere uno
degli obiettivi della rinascita della sanità della nostra
regione.
E
soprattutto una riflessione dall’Anaao, che ha ripreso un
editoriale del British Medical Journal nel 2013: non è detto
che sempre le cure territoriali possono ridurre i ricoveri,
perché ormai ci sono anziani molto fragili, con pluripatologie
complesse, che quando sono instabili devono essere ricoverati,
non si possono curare a casa! Quello
che si possa curare gli anziani sempre a casa, fa parte di
ideologie prive di fondamento e di scientificità».
Ancora
sui problemi dell’emergenza – urgenza.
«Ed
ancora sull’emergenza. E qui bisogna rifar tutto, perché
avevamo una buona emergenza e l’hanno distrutta totalmente.
Questo è il centro di Dresda: bombardamento a tappeto. Bisogna
tornare al dipartimento di emergenza, che non è una nostra
invenzione, perché tutto il mondo ce l’ha, noi siamo invece
riusciti ad eliminarlo, un dipartimento
dell’emergenza urgenza che sia responsabile di tutta
l’attività dell’area vasta; perché adesso non si sa da
chi dipenda il punto di primo intervento di Gemona, non si sa
da chi dipendano le ambulanze perché la centrale è a
Palmanova, neanche si sa da chi dipenda Palmanova, e
probabilmente neppure loro sanno da chi dipendono, e intanto la
gente muore perché uno o l’altro non sanno da chi dipendono.
Cosa
bisogna fare? So che sarà difficile, però la
situazione attuale non è emendabile, non si può correggere.
Io ho lavorato 30 anni nell’emergenza, e credo di sapere
qualcosa nel merito. Secondo me bisognerebbe
ritornare alle centrali operative provinciali, perché non è
sostenibile il sistema attuale. Oppure il
personale delle 4 province lo si deve mandare a lavorare a
Palmanova, facendogli fare ogni giorno il viaggio su e giù,
perché non è possibile che prenda la chiamata qualcuno che
non conosce dove mandare il mezzo.
Infine
l’Europa dice una cosa molto semplice. Oltre l’emergenza
118, ci deve essere anche un telefono, non una centrale a
parte, che risponde pure all’urgenza diciamo più lieve, in
sintesi qui la guardia medica o similare. Ma allora io dico, la
centrale dovrebbe essere una centrale unica anche con più
numeri, dove si processano le varie chiamate. Perché tra
urgenza e non urgenza c’è una zona grigia, non c’è una
separazione netta. Questo sta malissimo, questo non sta
malissimo: fra loro c’è tutto un intermedio. E certo il
malato non ci può dire al telefono a quale settore appartenga.
Talvolta anche noi medici con il malato vicino, abbiamo
difficoltà a capire cos’ha: ma vi immaginate rispondendo
solo al telefono se io so posso sapere se chi chiama è un
codice bianco giallo o rosso, ed ho buone probabilità di
capirlo solo sovrastimando, e questo dovrebbe fare una
centrale. Tra l’altro una centrale di questo genere
diventerebbe il centro di coordinamento, il cervello dei centri
di soccorso e della continuità assistenziale, perché si
compenetrano, perché il malato cronico che ha una
riacutizzazione diventa un’emergenza, non so di che grado, ma
so che in questo settore non vi è o bianco o nero.
Quindi
si impone un riferimento unico per tutti, il che comporta il
ridisegnare la rete dei mezzi di soccorso e la rete dei presidi
dell’emergenza. Però sempre con la responsabilità di un
dipartimento di emergenza che è il garante, il responsabile,
dell’emergenza nell’area vasta, e che permette di sapere
chi sbaglia. Ed ai politici dico che devono scegliere dei
tecnici che sappiano fare i tecnici, non devono farlo loro,
ovviamente. Questa è la cosa essenziale».
L’importanza
di costruire un piano fattibile.
«Per
ridisegnare la sanità bisogna fare un piano, e io ne ho fatti
di piani. Fare un piano
significa produrre un documento programmatico, nero su bianco,
non fare gli annunci della Telesca, non fare
dichiarazioni del dover essere, che deve avere le
caratteristiche della fattibilità, cioè che deve poter essere
realizzabile. e servono degli studi che simulino e prevedano
l’impatto organizzativo, perché quando hanno deciso di far
chiamare prima il 112 che passa poi al 118 per le chiamate di
emergenza, chiunque capisce che avvengono due passaggi e tutti
comprendono che il tempo per inviare il soccorso raddoppia: non
è possibile diversamente. E
non mi possono dire che la centrale 118 è in rodaggio! Perché
in questo caso rodaggio vuol dire: quanti morti? E poi, dato
che i soldi sono quelli che sono, ci sono delle priorità».
Il
problema di ridisegnare il ssr implica un approccio tecnico
valutativo, non ideologico.
«Il
problema del ridisegnare il ssr implica un approccio non
ideologico ma tecnico valutativo, deve partire dall’analisi
anche spietata dei dati, il che implica di non dire che tutto
va bene, ma invece di riconoscere che alcune cose vanno male e
non possono essere nascoste. Pertanto devono esser individuati
obiettivi misurabili e raggiungibili. Prima vi ho mostrato i
tempi di attesa per interventi chirurgici bloccati al 2015.
Perché non ce li vogliono dire? Invece io devo sapere quali
sono le cause del fatto che prima operavo uno entro tre mesi e
ora entro quattro. Perché se prima si operava in tre mesi,
devo ritornare indietro a quel tempo di attesa, ma per farlo
devo avere dei dati, devo avere qualcosa di trasparente. Solo
con un sistema trasparente, senza paura del dato anche se
denuncia un insuccesso, si può attivare la spirale virtuosa
della qualità. Ed a proposito di qualità, anche a Gemona
hanno tolto la Joint Commission che era un modo per controllare
la qualità, ed adesso la mantiene solo Udine, e dovremo
trovare il modo di riaverla per tutta la regione».
Walter
Zalukar.
Ma
per ritornare all’articolo citato in premessa, esso riporta
che, tra gennaio e luglio del 2017, le statistiche segnalano
ben 389.133 decessi, un dato che supera di 28.174 unità quanto
registrato nei primi sette mesi del 2016. E se dovesse
continuare così, il bilancio finale dell’anno che sta per
chiudersi potrebbe essere di 663.284 morti, con un incremento
di ben 48 mila casi rispetto allo scorso anno, aumento che,
unito alla natalità decrescente, potrebbe avere forti riflessi
sugli aspetti demografici. (Gian Carlo Blangiardo, op. cit.). E
se è indubbio che negli ultimi anni si è assistito a un
generale miglioramento dello stato di salute della popolazione
italiana, «è anche vero che non tutti i cittadini hanno
beneficiato e beneficiano tuttora allo stesso modo di questi
progressi. Continuano infatti a persistere importanti
differenze in termini di salute e di mortalità entro i diversi
gruppi sociali. Mentre chi dispone di buone condizioni
economiche, possiede un elevato livello di istruzione, risiede
in aree non deprivate si caratterizza per un profilo
generalmente più sano e vede ridursi, anche nelle età più
avanzate, il rischio di morte, sul fronte opposto si collocano
milioni di soggetti che vivono in condizioni di fragilità. Una
fragilità che va spesso formandosi e accentuandosi col
progredire dell’età e che, se non adeguatamente contrastata,
finisce col risultare letale». (Ivi). «In ultima analisi, si
ha l’impressione che i 27 mila morti in più – quelli non
giustificabili con l’invecchiamento della popolazione –
contabilizzati nel corso del 2017, siano la logica conseguenza
di un atteggiamento e di una cultura (anche politica) distratta
dall’illusione che sul piano sanitario tutto possa andare
sempre e comunque nel segno del progresso. Ma il picco di
mortalità del 2015 non è stato un fatto episodico. È stato
solo un primo segnale, inascoltato, del nuovo corso di una
sanità alle prese con la crescente difficoltà nel sostenere,
purtroppo con risorse limitate, una popolazione sempre più
anziana, entro cui i soggetti fragili si riformano
instancabilmente. I dati statistici del 2017 confermano l’avvio
di una sfida impegnativa e dall’esito incerto. Una sfida che
potremo vincere solo chiamando all’appello il contributo di
tutte le componenti della nostra società e solo se sapremo
dare priorità e valore al principio e agli attori della
solidarietà». (Ivi).
Per
questo motivo ho riportato l’interessantissimo contributo del
dott. Walter Zalukar, per iniziare la via in salita per vincere
la sfida.
Laura
Matelda Puppini.
..................
E sempre dal sito "nonsolocarnia.info", LEGGI ANCHE l'ottimo articolo:
"FVG. AAS3 E SANITÀ IN MONTAGNA"
pubblicato il 17 dicembre 2017
http://www.nonsolocarnia.info/fvg-aas3-e-sanita-in-montagna/
(.......)
Caratteristiche territoriali della nuova AAS3.
La nuova Aas 3, figlia della riforma Marcolongo – Telesca, è caratterizzata da un territorio molto vasto: 3104 Kmq, circa il 40% del territorio regionale e circa il 63% della provincia di Udine, e comprende aree montane, collinari e di pianura. (...)
L’Aas3 era, e forse è, penalizzata nelle entrate.
Si sa che i bilanci sono fatti da entrate ed uscite. Alcuni aspetti mi hanno particolarmente colpito rispetto al budget di entrata per le aziende regionali ed in particolare per l’Aas3. Infatti nel 2015 il riparto del fondo sanitario tra le nuove Aas continuava a vedere in testa alla classifica per finanziamento regionale a paziente l’area triestina. A lei, infatti, spettavano 1.916 euro pro capite. Al secondo posto veniva la Aas4 Medio Friuli, con 1.845 euro; al terzo l’Aas 2 Isontino-Bassa Friulana con 1.484 euro per paziente; a cui seguiva la Aas 5 Friuli occidentale con 1.417 euro, ed infine, fanalino di coda, la Aas 3 Alto Friuli con 1.383. (Elena Del Giudice, Sanità, friulani penultimi in Italia, in: Messaggero Veneto, 27 aprile 2015, dati da me ripresi in: Laura M Puppini. Governo, regione, sanità, delle entrate e delle spese, in. www.nonsolocarnia.info). (...)