RINGRAZIAMENTI E PRECISAZIONI
Il saggio a firma di Donato Toffoli è stato pubblicato sul libro "Venezia Giulia - La Regione Inventata" a cura di Roberta Michieli e Giuliano Zelco, casa editrice Kappa Vu, anno 2008, da pagina 64 a pagina 72 con il titolo "La Venezia Giulia: una questione friulana."
La Redazione del Blog ringrazia la dott.ssa Alessandra Kersevan (Casa editrice Kappa Vu) e l'autore del saggio dott. Donato Toffoli, per averle concesso la pubblicazione di questa importante ricerca storica che, assieme agli altri saggi pubblicati nel libro, contribuisce magistralmente a chiarire la storia dell'invenzione politica "Venezia Giulia" e i suoi legami con la "questione friulana".
La Redazione del Blog ringrazia la dott.ssa Alessandra Kersevan (Casa editrice Kappa Vu) e l'autore del saggio dott. Donato Toffoli, per averle concesso la pubblicazione di questa importante ricerca storica che, assieme agli altri saggi pubblicati nel libro, contribuisce magistralmente a chiarire la storia dell'invenzione politica "Venezia Giulia" e i suoi legami con la "questione friulana".
LA REDAZIONE DEL BLOG
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LA VENEZIA GIULIA:
UNA
QUESTIONE FRIULANA
di
Donato
Toffoli
La denominazione di
“Venezia Giulia”, come è risaputo, ha una precisa data di
nascita: domenica 23 agosto 1863; in tale data compare infatti sulle
pagine del giornale milanese “L’Alleanza” un articolo
non firmato, fatto che riveste una certa importanza, intitolato “Le
Venezie”, ripubblicato dopo poco, il 30 agosto 1863, sempre in
forma anonima, sulla rivista illustrata, anche questa milanese, “Il
Museo di famiglia”1.
E’ interessante
soffermarci un attimo sui “contenitori” giornalistici che
ospitano l’articolo: “L’Alleanza” che porta il
sottotitolo di “Giornale politico-letterario internazionale”,
diretto da Ignazio Helfy, è periodico di alto livello, militante e
politicamente connotato in senso progressista, che funziona anche da
elemento catalizzatore per numerosi esuli o emigrati dalle regioni
dell’est, come Niccolò Tommaseo, Francesco Dall’Ongaro e
Pacifico Valussi. Questo fatto spiega la grande attenzione per i
problemi dell’Europa orientale in generale e in particolare per i
destini di quella zona, sotto il “giogo” austriaco, che veniva
sentita dai redattori come parte costitutiva di una futura Italia
completamente libera e sovrana all’interno dei suoi confini
“naturali”.
Più popolare e “di
consumo” invece risulta “Il Museo di famiglia”, che
mescola scienza, arte, letteratura e note politiche, ma che ha la
caratteristica, oltre che quella di ospitare anch’esso interventi
di Tommaseo e Dall’Ongaro, di avere come direttore l’ebreo
triestino Emilio Treves. Come si vede la provenienza da zone
austriache e la comune fede religiosa accomunano il direttore di tale
periodico al friulano Graziadio Isaia Ascoli, un recente, ed ancora
un po’ spaesato, immigrato a Milano.
Ascoli, nato nel 1829 a
Gorizia, nella importante ed intellettualmente assai evoluta comunità
ebraica locale, decide infatti, nel novembre del 1861, di trasferirsi
a Milano, accettando la cattedra di “Grammatica comparata e lingue
orientali” presso l’Accademia scientifico-letteraria. La sua
presenza nella metropoli lombarda comporterà di fatto, se non la
nascita, almeno un riallineamento delle scienze linguistiche italiane
al livello delle migliori esperienze europee, come pure garantirà
una posizione antipurista e rispettosa della pluralità linguistica
nel dibattito sulla lingua adatta al neonato stato italiano;
posizione di chiara impronta democratica e federalista.
È proprio lui l’anonimo
autore di ”Le Venezie”, articolo inserito con modesto
rilievo tipografico nei due periodici citati; e solo più di quindici
anni dopo deciderà di proclamarsi autore dell’”articolino” in
questione, ripubblicandolo in una miscellanea di scritti: “La
stella dell’Esule”, pubblicato a Roma nel 1879 dalla Libreria
Manzoni.
La riflessione ascoliana,
si badi bene, si colloca a cavallo tra la rapida e per certi versi
inaspettata proclamazione del Regno d’Italia (1861) e la fine della
cosiddetta “Terza Guerra di Indipendenza” (1866), in realtà una
collezione di disfatte da cui lo stato sabaudo fu preservato grazie
all’alleanza con la vittoriosa Germania prussiana. Un momento di
grande effervescenza, dove tutto sembra possibile ma che, nel giro di
pochi mesi, vede cristallizzarsi una situazione geopolitica e un
confine che dureranno per più di cinquant’anni, fino alla fine
della prima guerra mondiale.
Nel momento in cui Ascoli
scrive, tutte le “Venezie” sono soggette all’Austria, ma nel
1866 entra nello stato italiano quella che egli aveva chiamato
“Venezia Propria”, che comprende anche il Friuli centrale ed
occidentale; si deve precisare che l’espressione “Venezia
Euganea” non è da attribuirsi in alcun modo al goriziano.
Rimangono escluse dal Regno d’Italia, e lo rimarranno per molto
tempo, la “Venezia Tridentina o Retica” e la “Venezia Giulia”,
cioè come scrive: “le contrade dell’Italia settentrionale che
sono al di là dei confini amministrativi della Venezia”, dove, si
badi, i confini amministrativi sono, al momento della pubblicazione
dell’articolo, quelli interni al dominio austriaco. Il problema
dunque, scontata l’esistenza di una “Venezia”, è quello di
dare un nome univoco alla “provincia che tra la Venezia Propria e
le Alpi Giulie ed il mare rinserra Gorizia e Trieste e l’Istria”
con capitale naturale “la splendida e ospitalissima Trieste”;
tutto ciò non solo per questioni di comodità descrittiva ma poiché
“In certe congiunture, i nomi sono più che parole. Sono bandiere
alzate, sono simboli efficacissimi, onde le idee si avvalorano e si
agevolano i fatti”.
Non manca un riferimento a una categoria che, per la storia del termine “Venezia Giulia” è di importanza capitale, la “ambiguità preziosa”: “E nella denominazione comprensiva Le Venezie avremo un’appellativo che per ambiguità preziosa esprime in classica italianità la sola Venezia propria e, quindi potrebbe stare sin d’ora, cautamente ardito, sul labbro e sulla penna dei nostri diplomatici”. In realtà l’intera catena semantica che viene a prodursi poggia sull’ambiguità, creando o “immaginando una comunità” che ha un senso, sia sincronico che diacronico, flessibile ed adattabile a seconda delle circostanze: una potente mistura che è sostanzialmente falsa, ma verosimile, poiché evoca denominazioni storiche manipolandole e decontestualizzandole, ed ampliabile a piacere. Non solo la “Venezia Giulia” può essere considerata subordinata alla (e dunque coincidente con la) “Venezia Propria” e dunque all’Italia, ma raccoglie, e di questo Ascoli è interprete forse involontario, tutti i significati che i termini Venezia e Giulia si portano dietro, trasformati in mito fondatore: in particolare il mito della romanità e quello della venezianità.
Non manca un riferimento a una categoria che, per la storia del termine “Venezia Giulia” è di importanza capitale, la “ambiguità preziosa”: “E nella denominazione comprensiva Le Venezie avremo un’appellativo che per ambiguità preziosa esprime in classica italianità la sola Venezia propria e, quindi potrebbe stare sin d’ora, cautamente ardito, sul labbro e sulla penna dei nostri diplomatici”. In realtà l’intera catena semantica che viene a prodursi poggia sull’ambiguità, creando o “immaginando una comunità” che ha un senso, sia sincronico che diacronico, flessibile ed adattabile a seconda delle circostanze: una potente mistura che è sostanzialmente falsa, ma verosimile, poiché evoca denominazioni storiche manipolandole e decontestualizzandole, ed ampliabile a piacere. Non solo la “Venezia Giulia” può essere considerata subordinata alla (e dunque coincidente con la) “Venezia Propria” e dunque all’Italia, ma raccoglie, e di questo Ascoli è interprete forse involontario, tutti i significati che i termini Venezia e Giulia si portano dietro, trasformati in mito fondatore: in particolare il mito della romanità e quello della venezianità.
È ben vero che esiste
une attestazione classica di un’unità amministrativa imperiale
romana che contiene il termine Venezia: la X Regio Venetia et
Histria, che fu molto vasta, dall’Adda ad una parte dell’Istria,
ma, come è facile cogliere, non coincide con la partizione ascoliana
e contiene il termine Istria, che non sembra opportuno richiamare
secondo il suo stesso assunto. Esiste finanche una attestazione di
Venetiae, al plurale, ma indica una suddivisione, tardo imperiale,
fra una Venetia interna e una Venetia “maritima”. In quanto a
Giulia vi è sicuramente la presenza di elementi toponimici di età
classica che richiamano la gens Julia ma non sono in alcun modo
caratteristica esclusiva di questa zona (vedi ad esempio Frejus in
Provenza), ed anche la loro manifestazione più vistosa, le Alpes
Juliae, non caratterizzano con la loro presenza tutta la “Venezia
Giulia”. E, detto per inciso e dimostrando la totale inaffidabilità
del concetto di “confine naturale”, con la loro presenza, a
partire almeno dal Neolitico, non hanno mai diviso alcunchè.
Il richiamo dunque è
allo stesso tempo mitico ed ambiguo. Mitico perché il riferimento è
al mito di Roma, di cui la nuova compagine statale viene vista come
la “naturale” continuatrice, con tutti gli annessi e connessi
attributi di superiore civiltà e conseguente funzione
civilizzatrice; ed è al mito di Venezia, la Serenissima Repubblica,
anch’essa progenitrice dell’Italia, che solcava potente i mari
del Mediterraneo, patria di astuti mercanti e di generosi protettori
di pittori, scultori e letterati: i leoni di San Marco appiccicati su
piazze e monumenti della “Venezia Giulia”, ben dopo Campoformido (1797),
sono una manifestazione evidente di tale mito.
Ambiguo perché chi può
dire dove termini con sicurezza l’influenza del mito “romano” e
“veneziano”: il dominio romano non arrivava forse fino alla
Dacia? Il patriziato veneziano non controllava forse Cattaro o Zante?
Forse troppo, anche per un irredentista accanito. Tuttavia il
messaggio offerto, interpretato da un nazionalismo meno moderato e
sorvegliato di quello di Ascoli, e sancito dallo Stato, portava
diritti ad una interpretazione estensiva ed imperialistica del
termine “Venezia Giulia”, per una “più grande Italia”.
L'”articolino” di
Ascoli ha un’importanza relativa nella storia di quella che resta
una grande figura di intellettuale, di livello europeo, in cui si
nota un atteggiamento contraddittorio sulla questione del “confine
orientale”, ma a volte molto duro con l’irredentismo, sentito
persino come minaccia alle rivendicazioni di carattere culturale
degli italiani d’Austria, da condurre in un quadro di rispetto
delle istituzioni dello stato asburgico. Tuttavia è singolare e
suggestivo sia perché coglie e sistematizza elementi culturali che
probabilmente cominciavano a diventare senso comune sia perché
offre un testo sintetico, aperto e suscettibile di ampliamenti e
variazioni, al nazionalismo oltranzista italiano, in crescita
esponenziale a partire dagli anni Ottanta dell’Ottocento.
Prova della prima
questione è la pubblicazione nel luglio 1866 de Il Confine
orientale d’Italia scritto da Amato Amati che, in piena
autonomia da Ascoli, posto di fronte al medesimo dilemma: come
denominare in modo univoco la regione a nordest di Venezia scrive:
“La denominazione più semplice, più opportuna, più conforme alle
tradizioni, al linguaggio, al costume, ai bisogni economici e morali
di questa regione delle Alpi Giulie, sia quella antica di Venezia:
l’aggiunta di Orientale, Ulteriore, Giulia, come meglio piace,
potrebbe all’uopo distinguere questa Venezia con capitale Trieste,
dall’altra Venezia delle lagune”. Anche l’utilizzo strumentale
e liberamente adattato in chiave irredentista dello scritto ascoliano
sembrerebbe, anche se non ci sono conferme documentali, abbastanza
rapido se dobbiamo credere alla lettera introduttiva di Ascoli al
testo di Le Venezie comparso sulla "Stella dell’esule":
“l’articolino” del 1863, scrive, “ (...) fu dipoi ricopiato e
ristampato più volte, ma sempre in modo più o meno scorretto.”
Anche dopo l’attribuzione
sicura del testo ad Ascoli, che del resto non usò neppure lui in
maniera sistematica la propria terminologia, proseguì questa
operazione; ma bisogna anche sottolineare che in nessuna occasione la
denominazione di “Venezia Giulia” fu riconosciuta come la
denominazione ufficiale e nemmeno negli stessi ambienti irredentisti
venne a sostituire altre denominazioni in uso da anni. Fermo restando
che l’unica definizione considerata deprecabile in ambito italiano
fu “Litorale” nelle sue varie forme, l’ambiente irredentista
pullula di Associazioni Trento e Trieste, di riviste come l’
”Archivio Storico per Trieste, l’Istria ed il Trentino”, di
articoli sulle Terre irredente, in cui “Venezia Giulia” non si
usa, ma si snocciolano i termini di Goriziano, Trieste, Istria,
Dalmazia e quant’altro.
Un addensamento dell’uso di questo termine si nota con l’avvicinarsi al conflitto mondiale e con l’aumento della virulenza nazionalistica: così il volume L’Ora di Trieste2 di Giulio Caprin, del 1914, porta come sottotitolo La Venezia Giulia nella unità della storia italiana, così pure l’opera storico propagandistica di Attilio Tamaro, La Vénétie Julienne et la Dalmatie3, del 1918, stampata dal Senato del Regno in francese, internazionalizza la denominazione. Ma è solo il decreto del 3 novembre 1918 emanato dal Tenente Generale Carlo Petitti di Roreto in qualità di Governatore per la Venezia Giulia che fa entrare il termine dalla preistoria nella storia e, moltiplicato in un numero innumerevole di atti e comunicazioni, farà diventare il termine normale, tanto da farlo accettare, ben oltre la dittatura fascista, nell’ordinamento giuridico della Repubblica “nata dalla Resistenza”, nonostante la sua indubbia potenzialità nazionalista ed irredentista.
Un addensamento dell’uso di questo termine si nota con l’avvicinarsi al conflitto mondiale e con l’aumento della virulenza nazionalistica: così il volume L’Ora di Trieste2 di Giulio Caprin, del 1914, porta come sottotitolo La Venezia Giulia nella unità della storia italiana, così pure l’opera storico propagandistica di Attilio Tamaro, La Vénétie Julienne et la Dalmatie3, del 1918, stampata dal Senato del Regno in francese, internazionalizza la denominazione. Ma è solo il decreto del 3 novembre 1918 emanato dal Tenente Generale Carlo Petitti di Roreto in qualità di Governatore per la Venezia Giulia che fa entrare il termine dalla preistoria nella storia e, moltiplicato in un numero innumerevole di atti e comunicazioni, farà diventare il termine normale, tanto da farlo accettare, ben oltre la dittatura fascista, nell’ordinamento giuridico della Repubblica “nata dalla Resistenza”, nonostante la sua indubbia potenzialità nazionalista ed irredentista.
In tutta questa vicenda
emerge con chiarezza l’assenza, o meglio l’eclissi del termine
Friuli, che tuttalpiù compare nel repertorio di voci che devono
essere cancellate e sostituite, come Istria o Goriziano. Tutto ciò è
perfettamente in linea con l’assunto generale: Venezia Giulia è un
termine che deve avere un impatto decisivo nello scenario
internazionale per rendere più incisive le rivendicazioni dello
stato italiano e per fare questo deve compattare le diverse identità
presenti sul territorio. Sfortuna vuole che il Friuli centrale ed
occidentale, in questo schema, ricada per una parte sotto la “Venezia
Propria” e quello orientale sotto la “Venezia Giulia”, ma
questo sempre negli interessi “superiori” della “nazione”.
Sorprende, ma fino ad un
certo punto, che l’autore di questa formula sia un friulano, Graziadio Isaia Ascoli, e che
sia lo stesso intellettuale che con la pubblicazione dei Saggi
Ladini4,
nel 1873, fornirà, per lo meno in ambito italiano, la dimostrazione
dell’individualità linguistica della lingua friulana: cosa che,
fra l’altro, sarà motivo di imbarazzo nell’ambiente irredentista
italiano che lo interpreterà come un cedimento alla Kultur
pangermanista. Certo è che nella non abbondante produzione
storiografica di matrice “autonomistica” friulana la invenzione
ascoliana (proprio dell’Ascoli a cui è intitolata la Società
Filologica Friulana) della “Venezia Giulia”, viene passata sotto
silenzio oppure in taluni casi viene aspramente criticata.
Fra i maggiori e più
radicali critici della “Venezia Giulia” ascoliana, troviamo chi
oppone al grande goriziano gli scritti di due autori friulani che
invece pongono al centro della loro riflessione storico-politica il
Friuli e non la “Venezia Giulia”. Per esempio il Di Caporiacco5
esalta l’opera di Prospero Antonini che, pur appartenendo
all’ambiente dei fuoriusciti milanesi a cui apparteneva lo stesso
Ascoli, nella sua opera del 1865 Il Friuli Orientale6,
non fa il minimo accenno alla Venezia Giulia e così descrive il
Friuli: “Il Friuli naturale, dedotto il distretto di Portogruaro,
ora compreso nella Provincia di Venezia, abbraccia nella sua totalità
la provincia di Udine propriamente detta, e la Contea di Gorizia
quasi per intero, ed eccettuati i territori carsici di Duino, Comeno,
Sesana che, posti al di là del Timavo, geograficamente spettano alla
penisola istriana”. Non sfugge allo spirito più acuto di Giuseppe
Marchetti che l’Antonini, in questo volume e nel successivo, Del
Friuli ed in particolare dei trattati da cui ebbe origine la dualità
politica della regione7,
edito nel 1873, dietro a tanta esattezza da agrimensore quando si
tratti di definire dove sia il Friuli, esprima riguardo al suo
ruolo un punto di vista che è alla base ”di tutta la letteratura
irredentistica posteriore ed il modello tuttora vigente per
l’interpretazione nazionalisticamente ortodossa della storia
locale”, un nazionalismo che giunge al punto di “fargli proporre
che nelle carte geografiche i nomi friulani siano ridotti in forma
italiana ed a fargli scrivere ad esempio, Cormonsio, Cordenonsio”8.
Sempre in ambiente
milanese troviamo un’altra e forse ancor più influente figura di
intellettuale: Pacifico Valussi, autore, sempre nel fatidico 1865, di
un opera Il Friuli9,
fra l’altro dedicato al direttore di “L’Alleanza”,
Ignazio Helfy. Valussi è l’autore del concetto di Friuli come
“regione naturale” e in questo senso è assai considerato da
alcuni “autonomisti” friulani. L’opera è molto
particolareggiata nell’enumerare le caratteristiche specifiche del
Friuli, tra cui la lingua: “dopo il sardo, il dialetto friulano è
tra gli italiani quello che più si avvicina al latino, per una
parte, al provenzale ed al catalano per un’altra” ed “il
dialetto friulano a Gorizia è generalmente più parlato che non
nella stessa Udine, dove il veneto prevale sempre più” ma è allo
stesso modo molto prudente su questi aspetti, sapendo che ”gli
statistici e gli etnologi austriaci, collo scopo di separare
nell’Impero Italiani da Italiani, come fecero altrove dei Polacchi
e dei Ruteni, degli Czechi e degli Slovacchi, dei Croati, dei Serbi e
dei Dalmati, vollero fare dei Friulani una nazionalità a parte”.
Allora la specificità
del Friuli si fonda sull’antica consuetudine ad essere come
“Aquileja, baluardo dell’Impero Romano” e “Palma, baluardo
della Repubblica di Venezia” (il mito romano e veneziano di cui si
parlava sopra) e sull’auspicio di riuscire a diventare il futuro
“baluardo della nazione italiana”. Così “Il Friuli andrà
superbo di ciò, non come di un merito proprio, ma per la coscienza
di un debito suo, chè essendo paese di confine, gl’incombe di
difendere l’Italia non soltanto coi petti de’suoi cittadini, ma
anche colla civiltà, destinata ad espandersi ed a guadagnar
nuovamente terreno sui paesi vicini. Sarà una grande difesa della
nazione italiana il poter mostrare ai confini suoi una civiltà
diffusiva, la quale è atta a vincere quella dei tedeschi e degli
Slavi, che da quella parte non seppero finora opporci che la forza
materiale, e dovettero dinanzi a lei indietreggiare sul suolo invaso”.
Insomma, per essere chiari : “O giovani Friulani, ricordatevi, che
voi siete le guardie di confine della italiana civiltà”.
Tale visione, che pur
considera centrale il Friuli, appare sotto tutti i punti di vista non
alternativa a quella veneto-giuliana, ma concorrente nell’affermare
una visione nazionalista italiana per nulla moderata, ma aggressiva
ed espansionista.
E che sia profondamente
radicata nell’immaginario politico culturale friulano lo dimostrano
diversi scritti: ad esempio, molti anni dopo, precisamente nel 1922,
viene pubblicato un’opuscolo: La funzione storica del Friuli10;
questo risulta essere in realtà la trascrizione di una conferenza
tenuta in Castello a Udine, agli ufficiali del comando Supremo, il 18
gennaio 1917, in piena guerra mondiale, da Bindo Chiurlo, fondatore
della Società Filologica ed intellettuale solitamente molto misurato.
Passando in rassegna la storia del Friuli, caratterizzata da unità
“geografica” e di “stirpe”, con la sua “parlata romanza”,
si afferma: “se, nelle guerre contro i barbari, per la sua
piccolezza, la gente del Friuli dovette spesso accontentarsi di dar
man forte e di offrire soltanto l’arma più vicina a ferire; se una
parte di esso, il Friuli orientale, fu, da un insieme di cause,
costretta a seguire i destini di casa d’Austria, il Friuli,
all’infuori e al di sopra delle vicende politiche e militari, non
venne mai meno alla sua funzione etnica di resistenza latina.”,
“Poiché tutta la storia friulana si rifà senza coartazioni, nelle
sue linee generali, sullo schema della “porta d’Italia”, e
della sua istintiva resistenza contro germanesimo e slavismo”.
Netta è la conclusione che ne deriva, quasi la definizione di un
programma: “Né la funzione che la Natura ha assegnato al Friuli è
finita, ma par oggi coronarsi della sua più fulgida pagina; e come
da un lato la porta patente, dal Vipacco a Monfalcone, ha ricondotto
gli eserciti d’Italia all’ultima lotta contro lo straniero, così
domani si profila per la gente friulana l’ultimo compito: la
assimilazione non violenta, ma per forza di carattere, dell’elemento
slavo, che entrerà in misura larghissima a far parte della terra
friulana. Poiché io non vi nascondo che credo destinata questa
regione a restare una, compatta, essa stessa; perché il calmo ma
tenace, il duro ma civile, il latino ma non chiuso a certe
comprensioni dell’anima germanica e slava, carattere friulano è
senza dubbio il più indicato a quest’opera di assimilazione
pacifica. E il Friuli si ricomporrà in una sola unità regionale e
religiosa. Deve risorgere, all’ombra materna di Roma, la “patria
del Friuli” e il “patriarcato d’Aquileia”, onde sia forte,
unita, compatta questa terra limitanea, questa rinnovellata marca
d’Italia. Tale la nuova missione della terra friulana verso il nord
e verso il nord-est, accanto a quella che avrà Trieste verso
oriente”. Impressionante appare la richiesta di apertura di
credito, con la guerra ancora in corso, ed anzi con Caporetto
incombente, ad aspirazioni fortemente autonomistiche come la
ricostituzione della Patria del Friuli e del Patriarcato di Aquileia,
che trovano in ogni caso la loro contropartita in una funzione dei
Friulani come “specialisti in assimilazione”.
Ma che non sia una
boutade, o una idea non condivisa da settori importanti dell’opinione
pubblica, è dimostrato da uno dei primissimi documenti politici
redatti in Friuli dopo la fine della guerra, presumibilmente il 7 di
settembre del 191911
e che riecheggia nella sostanza gli stessi temi. Al Teatro Cecchini
di Udine, infatti, si riunisce l’assemblea della sezione udinese
della Associazione Nazionale Combattenti; la riduzione dei
combattenti ad una organizzazione esclusivamente sciovinistica non
appare corretto e, per esempio, appaiono suggestivi i possibili
confronti tra il combattentismo sardo, con la significativa presenza
tra i suoi leaders di Emilio Lussu, che è regionalista e da cui
nascerà il Partito Sardo d’Azione e quello friulano. Tuttavia
quest’ultimo appare segnato irrimediabilmente dalla presenza della
questione del “confine orientale” che lo induce ad assumere una
posizione di forte nazionalismo, con la presenza correlata però,
come nel discorso di Chiurlo, di una forte tensione autonomistica;
infatti l’Assemblea, “ritenuta l’unità geografica ed etnica
della regione friulana e le identità d’interessi economici della
provincia di Udine e del Friuli orientale, (…) fa voti perché
l’unione di tutto il Friuli in un solo collegio elettorale venga
deliberata dai competenti poteri dello Stato e sia preludio di un
pieno riconoscimento dell’unità regionale del Friuli”.
Il momento più alto di
questa visione, autonomista ed antislava per essere sintetici,
sostenuta da vari settori politici - un nome per tutti: Girardini -
verrà raggiunto nel momento dell’effimera (1923– 1927)
unificazione delle provincie di Udine e Gorizia nella Provincia del
Friuli, con la chiara intenzione di diluire i voti sloveni (e, en
passant, comunisti). Una volta creato lo stato totalitario, non si
pone più nessun problema elettorale e lo strumento “Provincia del
Friuli”, con buona pace degli ambienti “friulanisti”, perde
qualsiasi importanza.
A questo punto potremmo
porci motivatamente una domanda: come mai allora in presenza di tale
importante visione concorrente, il termine di “Venezia Giulia”
riuscì non solo a sopravvivere e perpetuarsi, ma ad imporsi, tanto
da far considerare al giorno d’oggi il concetto di Friuli
orientale, assolutamente pacifico all’inizio del Novecento, come
una forzatura?
Le risposte devono essere
formulate con grande prudenza e considerando diversi fattori. Una
prima considerazione da farsi è che la sanzione istituzionale del
termine “Venezia Giulia” come corretto, comporta un grande
vantaggio: in questo caso è lo Stato, con i suoi strumenti di
controllo e formazione del consenso, a creare un’identità o
pseudoidentità collettiva. Inoltre il tipo di “autonomismo”
friulano sopra ricordato, quello sintetizzato nella formula della
“grande e piccola patria”, si giustifica, e lo abbiamo visto
chiaramente, come parte di un progetto più vasto e nobile, o
presunto tale: il progetto di costruzione, sviluppo, difesa della
Nazione italiana, con la enne maiuscola. Questo comporta, in spiriti
più portati ad ascoltare il richiamo agli “interessi superiori”,
un riallineamento agli indirizzi prevalenti, e se questi comportano
una rinuncia alle istanze autonomistiche, pazienza.
In terzo luogo mentre la
denominazione di Friuli, per quanto la si possa estendere e riferire
a luoghi diversi, ha sempre dei limiti che sono dovuti ad un suo uso
storico prolungato nei secoli, non è così per il termine “Venezia
Giulia” che, essendo di fresca invenzione e dotato di “ambiguità
preziosa”, può invece essere esteso a piacimento; un suo limite
diventa così paradossalmente una sua forza.
In quarto luogo, ed è
elemento di grande interesse: se si applica al Friuli, e ai suoi
tratti specifici, un’analisi in termini diacronici e sincronici,
senza volerlo inserire a forza nel contesto e nel disegno
provvidenziale della “nazione“ italiana, se cioè si segue la via
di un autonomismo non secondario e derivato, si rischia di ottenere
una interpretazione autonoma e non subalterna di esso; realmente e
radicalmente alternativa al modello sciovinista contrassegnato dal
termine “Venezia Giulia”.
E questa è forse la
peggiore “disgrazia” per chi abbia una visione del Friuli che si
propone di affermare interessi che al Friuli sono estranei o
avversi, con una classe dirigente subalterna o peggio eterodiretta,
la quale sostiene di voler valorizzare il territorio e le sue
specificità, ma a cui in realtà interessa esclusivamente la propria
autoperpetuazione.
Questo rischio e questa
“disgrazia” si materializzano, subito dopo la fine della prima
guerra mondiale, nelle posizioni di un intellettuale friulano,
Achille Tellini, che dall’analisi della specificità del Friuli
ricava una lezione opposta a quella dell’”autonomismo” sopra
ricordato.
Nelle riviste "Tesaur
de Lenge Furlane" e "Patrje Ladine", scritte integralmente
in friulano, con riassunto in esperanto, proporrà una visione
dei Friulani, parte costitutiva della Ladinia, come nazione che deve
unificarsi, dotarsi di istituzioni comuni, con una funzione storica
praticamente contraria a quella sopra ricordata: costituire un’oasi
di pace al centro dell’Europa, separando gli opposti imperialismi;
disponibile addirittura “se la volontà unanime dei ladini non sarà
sufficiente a fare riconoscere dal governo la nostra lingua” ad
“unirsi con i 467.000 sloveni e croati che saranno sotto la
bandiera d’Italia” oltre che con sardi, tedeschi, albanesi,
francesi, ebrei, catalani e romeni ; se ciò non è sufficiente,
disponibile a “promuovere la federazione di tutte le minoranze
etniche di ogni stato della terra”12.
Si può ritenere con ragionevole certezza che questa sia la radice autentica del moderno autonomismo friulano, quanto di più lontano si possa immaginare da un “autonomismo secondario” al servizio del nazionalismo italiano e allo stesso tempo lontanissimo dagli incubi novecenteschi, neutralizzati ma, in modo latente, ancora presenti nel termine “Venezia Giulia”.
Si può ritenere con ragionevole certezza che questa sia la radice autentica del moderno autonomismo friulano, quanto di più lontano si possa immaginare da un “autonomismo secondario” al servizio del nazionalismo italiano e allo stesso tempo lontanissimo dagli incubi novecenteschi, neutralizzati ma, in modo latente, ancora presenti nel termine “Venezia Giulia”.
.........................
NOTE ESPLICATIVE
1
Tra la cospicua bibliografia, densa di riferimenti e citazioni,
sintetizzando al massimo ricordo: E. Sestan Venezia
Giulia : lineamenti di una storia etnica e culturale e il contesto
storico-politico in cui si colloca l'opera,
Udine, Del Bianco, 1997 ; nel volume, autentica miniera di
informazioni: Le Identità delle
Venezie (1866-1918). Confini storici, culturali, linguistici,
Atti del Convegno internazionale di studi (Venezia, 8-10 febbraio
2001), a cura di T. Agostini, Roma-Padova, Antenore, 2002
soprattutto i contributi di A. Brambilla L’identità
delle Venezie nel pensiero di G.I. Ascoli,
pp. 77-97; A. Stussi Nazionalismo e
irredentismo degli intellettuali nelle Tre Venezie,
pp. 3-32 ; S. Adamo L’identità
delle Venezie tra guide, memorie e libri di viaggio,
pp. 135-163 ; F. Salimbeni Il mito
di Venezia nella cultura giuliana tra Otto e Novecento,
pp. 33-40. Sempre di A. Brambilla G.A.
Ascoli e la
Venezia Giulia. Nuovi appunti sulla fortuna di una definizione
in Studi Goriziani
97/98, 2003 pp. 119-128 e Appunti su
Graziadio Isaia Ascoli. Materiali
per la storia di un intellettuale,
Gorizia, Istituto giuliano di storia, cultura e documentazione,
1996; di F. Salimbeni G.I. Ascoli e
la Venezia Giulia in Quaderni
giuliani di storia, I, 1980,
fasc.I, pp.51-68 e La Venezia Giulia
e le Tre Venezie tra diversità e convergenze
in Studi Goriziani,
82, 1990 pp.49-64.
3
A. Tamaro La Vénétie Julienne, Rome, Imprimerie du Sénat,
1918 la quale costituisce la prima parte di un opera in tre volumi:
La Vénétie Julienne et la Dalmatie :
histoire de la nation italienne sur ses frontières orientales.
6
P. Antonini Il Friuli orientale: studi, Milano, F.
Vallardi, 1865. La citazione si trova a p. 534.
7
P. Antonini Del Friuli ed in particolare
dei trattati da cui ebbe origine la dualità politica in questa
regione : note storiche,
Venezia, P. Naratovich, 1873
8
G. Marchetti, Il Friuli uomini e tempi, Udine, Del Bianco,
1974 (2.ed.). La citazione si trova a p.683.
9
P. Valussi Il Friuli: studi e reminiscenze, Milano, Tip.
Internazionale, 1865. Le citazioni si trovano, nell’ordine alle p.
250, 19, 15, 76, 166.
10
B. Chiurlo La funzione storica del Friuli, Udine, Libreria
Carducci, 1922. Le citazioni sono alle p. 12, 15, 23.
11
L’assemblea dei combattenti. La loro azione nelle prossime
elezioni in Patria del Friuli, 8 settembre 1919, p.2
12
A. Tellini Apelo ai Ladíns
in Il tesaur de lenge
furlane, la
citazione tradotta si trova a p. 387
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