STORIA
DEL
CONFINE ORIENTALE
RELAZIONI
ITALO-SLOVENE 1880-1956
Relazione
della Commissione
storico-culturale
italo-slovena
Una
importante “Relazione”
mai
distribuita nelle scuole italiane
e
oggi "volutamente" dimenticata.
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TESTO
INTEGRALE DELLA RELAZIONE
(VERSIONE
UFFICIALE)
http://www.kozina.com/premik/indexita_porocilo.htm#kazal
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PERIODO 1880-1918
2. (…) Intorno all'anno 1880 gli sloveni si erano ormai dotati di basi sufficientemente solide per un'autonoma vita politica ed economica in tutte le unità politico-amministrative austriache nelle quali essi vivevano. Anche nel Litorale austriaco il movimento politico degli sloveni del Goriziano, del Triestino e dell'Istria costituì parte integrante del movimento politico degli sloveni nel loro complesso.
Viene così a diminuire, per poi cessare quasi completamente nei decenni successivi, l'assimilazione della popolazione slovena (e anche croata) trasferitasi nei centri cittadini e in particolare a Trieste. La più viva coscienza politica e nazionale e la maggiore solidità economica sono alla base di questo fenomeno, che allarma le élites italiane, dà vita ad una politica spesso angusta di difesa nazionale, che contrassegnerà la storia della regione sino al 1915, e contribuisce a rendere più teso il rapporto tra i due gruppi nazionali, anche a causa delle contrastanti aspirazioni slovene ed italiane ad una diversa delimitazione dei rispettivi territori nazionali. (…)
4. (…) In campo italiano Ruggero Timeus sviluppa anche un nazionalismo radicale ed esasperato, per quanto minoritario, che è fondato sull'idea di una missione civilizzatrice in senso culturale e nazionale della città e sull'imperativo di un'espansione economica dell'italianità nell'Adriatico. La forza politica più rappresentativa degli italiani di Trieste è però il partito liberale-nazionale, nel quale sopravvive una minoranza legata all'ispirazione mazziniana, mentre la maggioranza vede il compito immediato dell'irredentismo nella difesa dell'identità italiana della città e delle sue istituzioni. (…)
PERIODO 1918-1941
1. L'Italia, vittoriosa nella prima guerra mondiale, concluse così il proprio processo di unificazione nazionale, inglobando nel contempo, oltre agli sloveni residenti nelle città e nei centri minori a maggioranza italiana, anche distretti interamente sloveni, situati anche al di fuori del vecchio Litorale austriaco ed estranei allo stesso concetto di Venezia Giulia italiana, come era stato elaborato negli ultimi decenni. Ciò suscitò reazioni opposte fra le diverse componenti nazionali residenti nei territori dapprima occupati e poi annessi: gli italiani infatti accolsero con entusiasmo la nuova situazione, mentre per gli sloveni, che si erano impegnati per l'unità nazionale e si erano già alla fine della guerra dichiarati a favore del nascente stato jugoslavo, l'inglobamento nello stato italiano comportò un grave trauma. Il nuovo assetto del confine nord-adriatico, il cui tracciato era stato fissato sin dal patto di Londra del 1915, sostanzialmente confermato dal Trattato di Rapallo (1920), e che seguiva la linea displuviale tra il mar Nero e l'Adriatico, strappò dal ceppo nazionale, un quarto del popolo sloveno (327.230 unità secondo il censimento austriaco del 1910, 271.305 secondo il censimento italiano del 1921, 290.000 secondo le stime di Carlo Schifffrer ), ma la crescita del numero degli sloveni presenti in Italia non influì sulla situazione di quelli della Slavia veneta (circa 34 mila unità secondo il censimento del 1921) già presenti nel territorio del regno, ritenuti ormai assimilati ed ai quali non venne pertanto riconosciuto alcun diritto nazionale. (…)
4. Il trattato di Rapallo, sottoscritto nel novembre del 1920 tra il regno d'Italia e quello dei Serbi, Croati e Sloveni, accolse in pieno le esigenze italiane e amputò un quarto abbondante dell'area considerata dagli sloveni come proprio "territorio etnico". Tale esito era dovuto alla favorevole posizione negoziale dell'Italia che usciva dalla Grande Guerra come vincitrice e riconfermata nel suo status di "grande potenza". (…)
Clausole riguardanti la tutela delle minoranze nella Venezia Giulia non vennero incluse nemmeno nei successivi trattati del 1924 e del 1937 stipulati per avviare da parte jugoslava buoni rapporti con la potente vicina. (…)
6. L'impeto snazionalizzatore del fascismo andò però anche oltre la persecuzione politica, nell'intento di arrivare alla "bonifica etnica" della Venezia Giulia. Così, l'italianizzazione dei toponimi sloveni o l'uso esclusivo della loro forma italiana, dei cognomi e dei nomi personali si accompagnò alla promozione dell'emigrazione, all'impiego di elementi sloveni nell'interno del paese e nelle colonie, all'avvio di progetti di colonizzazione agricola interna da parte di elementi italiani, ai provvedimenti economici mirati a semplificare drasticamente la struttura della società slovena, eliminandone gli strati superiori in modo da renderla conforme allo stereotipo dello slavo incolto e campagnolo, ritenuto facilmente assimilabile dalla "superiore" civiltà italiana. A tali disegni di più ampio respiro si accompagnò una politica repressiva assai brutale. Vero è che nella medesima epoca la maggior parte degli stati europei mostrava scarso rispetto per i diritti delle minoranze etniche presenti sul loro territorio, quando addirittura non cercava in vari modi di conculcarli, ma ciò non toglie che la politica di "bonifica etnica" avviata dal fascismo sia risultata particolarmente pesante, anche perché l'intolleranza nazionale, talora venata di vero e proprio razzismo, si accompagnava alle misure totalitarie del regime. (…)
9. Ciò che infatti il fascismo cercò di realizzare nella Venezia Giulia fu un vero e proprio programma di distruzione integrale dell'identità nazionale slovena e croata. I risultati ottenuti furono però alquanto modesti, non per mancanza di volontà, ma per quella carenza di risorse che, in questo come in altri campi, rendeva velleitarie le aspirazioni totalitarie del regime. La politica snazionalizzatrice riuscì infatti a decimare la presenza slovena a Trieste e Gorizia, a disperdere largamente gli intellettuali e i ceti borghesi ed a proletarizzare la popolazione rurale, che però, nonostante tutto, rimase compattamente insediata sulla propria terra.
Il risultato più duraturo raggiunto dalla politica fascista fu però quello di consolidare, agli occhi degli sloveni, l'equivalenza fra Italia e fascismo e di condurre la maggior parte degli sloveni (vi furono infatti alcune frange che aderirono al fascismo) al rifiuto di quasi tutto ciò che appariva italiano. (…)
PERIODO 1941 - 1945
1. (…) La seconda guerra mondiale scatenata dalle forze dell'Asse introdusse nei rapporti sloveno italiani dimensioni nuove che condizionarono il futuro di tali rapporti. Se infatti per un verso l'attacco contro la Jugoslavia del 1941 e la successiva occupazione del territorio sloveno acuirono al massimo la tensione fra i due popoli, nel suo insieme il tempo di guerra vide una serie di svolte drammatiche nelle relazioni fra italiani e sloveni. L'occupazione del 1941 rappresentò così per lo Stato italiano il culmine della sua politica di potenza, mentre gli sloveni toccarono con l'occupazione e lo smembramento il fondo di un precipizio; la fine della guerra rappresentò, per converso, per il popolo sloveno una fase trionfale, mentre la maggior parte della popolazione italiana della Venezia Giulia fu invece assalita nel 1945 dal timore del naufragio nazionale.
2. La distruzione del regno jugoslavo si accompagnò allo smembramento non solo della compagine statale jugoslava, ma anche della Slovenia in quanto realtà unitaria: la divisione del Paese tra Italia, Germania ed Ungheria pose gli sloveni di fronte alla prospettiva dell'annientamento della loro esistenza come nazione di un milione e mezzo di abitanti e ciò li motivò alla resistenza contro gli invasori.
L'aggressione dell'Italia contro la Jugoslavia segnò il culmine della politica ventennale imperialista del fascismo, rivolta anche verso i Balcani ed il bacino danubiano. In contrasto con il diritto di guerra che non ammette l'annessione di territori occupati nel corso di azioni belliche prima della stipula di un trattato di pace, la Provincia di Lubiana fu annessa al Regno d'Italia. (…)
3. Al crescente successo delle azioni partigiane ed al radicalizzarsi della contrapposizione fra la popolazione e gli occupatori Mussolini rispose trasferendo i poteri dalle autorità civili a quelle militari, che adottarono drastiche misure repressive. Il regime d'occupazione fece leva sulla violenza che si manifestò con ogni genere di proibizioni, con le misure di confino, con le deportazioni e l'internamento nei numerosi campi istituiti in Italia (fra i quali vanno ricordati quelli di Arbe, Gonars e Renicci), con i processi dinanzi alle corti militari, con il sequestro e la distruzione di beni, con l'incendio di case e villaggi. Migliaia furono i morti, fra caduti in combattimento, condannati a morte, ostaggi fucilati e civili uccisi. I deportati furono approssimativamente 30 mila, per lo più civili, donne e bambini, e molti morirono di stenti. Furono concepiti pure disegni di deportazione in massa degli sloveni residenti nella provincia. La violenza raggiunse il suo apice nel corso dell'offensiva italiana del 1942, durata quattro mesi, che si era prefissa di ristabilire il controllo italiano su tutta la Provincia di Lubiana. (…)
4. La lotta di liberazione si estese ben presto dalla Provincia di Lubiana alla popolazione slovena del Litorale (…) Nell'opera di repressione del movimento di liberazione le autorità italiane ricorsero ai metodi repressivi già sperimentati nella Provincia di Lubiana, ivi compresi gli incendi di villaggi e la fucilazione di civili. A tal fine furono appositamente creati l'Ispettorato speciale per la pubblica sicurezza e due nuovi corpi d'armata dell'esercito italiano. Le operazioni militari si estesero pertanto anche sul territorio dello stato italiano. (…)
10. (…) L'estensione del controllo jugoslavo dalle aree già precedentemente liberate dal movimento partigiano fino a tutto il territorio della Venezia Giulia fu salutata con grande entusiasmo dalla maggioranza degli sloveni e dagli italiani favorevoli alla Jugoslavia. Per gli sloveni si trattò di una duplice liberazione, dagli occupatori tedeschi e dallo Stato italiano. Al contrario, i giuliani favorevoli all'Italia considerarono l'occupazione jugoslava come il momento più buio della loro storia, anche perché essa si accompagnò nella zona di Trieste, nel goriziano e nel capodistriano ad un'ondata di violenza che trovò espressione nell'arresto di molte migliaia di persone, - in larga maggioranza italiane, ma anche slovene contrarie al progetto politico comunista jugoslavo -, parte delle quali vennero a più riprese rilasciate; in centinaia di esecuzioni sommarie immediate - le cui vittime vennero in genere gettate nelle "foibe"; nella deportazione di un gran numero di militari e civili, parte dei quali perì di stenti o venne liquidata nel corso dei trasferimenti, nelle carceri e nei campi di prigionia (fra i quali va ricordato quello di Borovnica), creati in diverse zone della Jugoslavia.
11. Tali avvenimenti si verificarono in un clima di resa dei conti per la violenza fascista e di guerra ed appaiono in larga misura il frutto di un progetto politico preordinato, in cui confluivano diverse spinte: l'impegno ad eliminare soggetti e strutture ricollegabili (anche al di là delle responsabilità personali) al fascismo, alla dominazione nazista, al collaborazionismo ed allo stato italiano, assieme ad un disegno di epurazione preventiva di oppositori reali, potenziali o presunti tali, in funzione dell'avvento del regime comunista, e dell'annessione della Venezia Giulia al nuovo Stato jugoslavo. L'impulso primo della repressione partì da un movimento rivoluzionario che si stava trasformando in regime, convertendo quindi in violenza di Stato l'animosità nazionale ed ideologica diffusa nei quadri partigiani.
PERIODO 1945-1956
7. Fra le ragioni dell'esodo vanno tenute soprattutto presenti l'oppressione esercitata da un regime la cui natura totalitaria impediva anche la libera espressione dell'identità nazionale, il rigetto dei mutamenti nell'egemonia nazionale e sociale nell'area, nonché la ripulsa nei confronti delle radicali trasformazioni introdotte nell'economia. L'esistenza di uno Stato nazionale italiano democratico ed attiguo ai confini, più che l'azione propagandistica di agenzie locali filo-italiane, esplicatesi anche in assenza di sollecitazioni del governo italiano, costituì un fattore oggettivo di attrazione per popolazioni perseguitate ed impaurite, nonostante il governo italiano si fosse a più riprese adoperato per fermare, o quantomeno contenere, l'esodo. A ciò si aggiunse il deteriorarsi delle condizioni di vita, tipico dei sistemi socialisti, ma legato pure all'interruzione coatta dei rapporti con Trieste - che innescarono il timore per gli italiani dell'Istria di rimanere definitivamente dalla parte sbagliata della "cortina di ferro". In definitiva, le comunità italiane furono condotte a riconoscere l'impossibilità di mantenere la loro identità nazionale - intesa come complesso di modi di vivere e di sentire, ben oltre la sola dimensione politico-ideologica - nelle condizioni concretamente offerte dallo Stato jugoslavo e la loro decisione venne vissuta come una scelta di libertà.
8. In una prospettiva più ampia, l'esodo degli italiani dall'Istria si configura come aspetto particolare del processo di formazione degli stati nazionali in territori etnicamente compositi, che condusse alla dissoluzione della realtà pluringuistica e multiculticulturale esistente nell'Europa centro-orientale e sud-orientale. (…)
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NOTA DELLA
REDAZIONE DEL BLOG
La storia non può essere letta "a salti", cancellando le pagine che non piacciono o leggendo la storia del confine orientale d'Italia a partire dal 1943, dimenticando tutto ciò che era accaduto prima di tale data.
Riproponiamo la lettura della "Relazione della Commissione storico-culturale italo-slovena". Una Relazione importante mai distribuita nelle scuole italiane e sempre nascosta nei cassetti.
La pace può nascere solo dalla conoscenza di "tutte" le pagine del libro di storia, incluse quelle che ci hanno visti "carnefici".
Per non dimenticare:
IL CAMPO DI
CONCENTRAMENTO DI GONARS (Udine)
Dal sito ufficiale del
Comune Gonars (1942-1943)
Il
campo era stato costruito nell’autunno del 1941 in previsione
dell’arrivo di prigionieri di guerra russi, ma in questo senso
non fu mai utilizzato. Nella primavera del 1942 venne invece
destinato all’internamento dei civili della cosiddetta
“Provincia italiana di Lubiana”, rastrellati dall’esercito
italiano in applicazione della famigerata Circolare 3C del
generale Roatta, comandante della II Armata, che stabiliva le
misure repressive da attuare nei territori occupati e annessi
dall’Italia dopo l’aggressione nazifascista alla Jugoslavia
del 6 aprile 1941.
Le
due massime autorità civili e militari della provincia di
Lubiana, l’Alto Commissario Emilio Grazioli, squadrista della
prima ora, e il generale Mario Robotti, comandante dell’XI
Corpo d’Armata, misero in pratica con puntuale spietatezza le
misure repressive: fucilazione di ostaggi, incendi di villaggi,
deportazioni di intere popolazioni. Nella
notte fra il 22 e il 23 febbraio del 1942 la città di Lubiana
venne completamente circondata da filo spinato, tutti i maschi
adulti arrestati, sottoposti a controlli e la gran parte di essi
destinati all’internamento. Stessa sorte subirono in breve
anche le altre città della “provincia”.
Gli
arrestati furono portati nel campo di concentramento di Gonars,
che nell’estate del ’42 conteneva già oltre 6000 internati,
ben al di sopra delle sue possibilità ricettive, che erano per
meno di 3000 persone. A causa del sovraffollamento, delle
precarie condizioni igieniche e della cattiva alimentazione, ben
presto si diffusero varie malattie, come la dissenteria, che
cominciò a mietere le prime vittime.
In
questo primo periodo nel campo si trovarono concentrati
intellettuali, studenti, insegnanti, artigiani, operai, tutti
coloro insomma che venivano considerati potenziali oppositori
dell’occupazione, fra essi anche molti artisti che alla
detenzione nel campo hanno dedicato molte delle loro opere.
Sotto pseudonimo erano internati anche esponenti del Fronte di
Liberazione sloveno, che sarebbero poi diventati dirigenti della
Resistenza jugoslava. Alcuni di essi nell’agosto del 1942
organizzarono una clamorosa fuga dal campo, con il più classico
dei metodi: lo scavo di una lunga galleria sotto la baracca
XXII.
Dopo
la fuga, la gran parte degli internati vennero trasferiti in
altri campi che nel frattempo erano stati
istituti in Italia, in particolare a Monigo di Treviso, a
Chiesanuova di Padova e a Renicci di Anghiari in provincia di
Arezzo e poi a Visco, in provincia di Udine, a pochi chilometri
da Gonars
Ma il campo di Gonars si riempì ben presto di
un nuovo tipo di internati: uomini, donne, vecchi e bambini
rastrellati dai paesi del Gorski Kotar, la regione montuosa a
nord-est di Fiume, e prima deportati a Kampor, nell’isola
di Rab (Arbe). Qui nel luglio
del 1942 il generale Roatta aveva predisposto l’istituzione di
un immenso campo di concentramento, destinato ad essere una
delle tappe della “bonifica etnica” dei territori jugoslavi
occupati programmata dal regime fascista.
Nell’estate
del 1942 vi vennero internati oltre 10.000 sloveni e croati, in
condizioni di vita spaventose, in logore tende, senza servizi
igienici né cucine. I campi di concentramento per jugoslavi
erano infatti organizzati dai comandanti dell’esercito
italiano secondo il principio espresso dal generale Gambara:
“Campo di concentramento non è campo di ingrassamento.
Individuo malato = individuo che sta tranquillo”. Ben presto
la mortalità a Rab raggiunse livelli altissimi e il generale
Roatta decise il trasferimento di donne, vecchi e bambini a
Gonars, dove nell’autunno-inverno 1942-43 arrivarono migliaia
di persone in condizioni di debilitazione estrema. Così,
nonostante l’impegno umano di alcuni degli ufficiali e soldati
del contingente di guardia, quali il medico Mario Cordaro, nel
campo di Gonars morirono, di fame e malattie, oltre 500 persone.
Almeno 70 erano bambini di meno di un anno, nati e morti in
campo di concentamento.
Il
campo di Gonars, come tutti gli altri campi fascisti per
internati jugoslavi, funzionò fino al settembre del 1943,
quando con la capitolazione dell’esercito italiano il
contingente di guardia fuggì e gli internati furono lasciati
liberi di andarsene. Nei mesi successivi la popolazione di
Gonars smantellò il campo utilizzando i materiali per altre
costruzioni, come l’asilo infantile, e così oggi delle
strutture del campo non rimane più nulla.
A
memoria di questo campo di concentramento, per iniziativa delle
autorità jugoslave nel 1973 venne costruito nel cimitero
cittadino un Sacrario,
opera dello scultore Miodrag Živković, dove in due cripte
furono trasferiti i resti di 453 cittadini sloveni e croati
internati e morti nel campo di concentramento di Gonars