L’AUTONOMIA
CHE NON C’E’
"Friuli
vittima
della politica del carciofo:
via
via ha perso tutto"
di
Prof.
Gianfranco D'Aronco
I.
“Siede
la patria mia tra il monte e ‘l mare”, scriveva cinquecento anni
fa Erasmo di Valvason (oggi scriverebbe “Dorme”). La dolorosa
istoria dell’autonomia friulana può essere sintetizzata in poche
ma sentite parole. La iniziativa
fondamentale di Tiziano Tessitori, condotta in seno all’Assemblea
costituente, aveva ottenuto il suo primo riconoscimento dalla II.a
Sottocommissione, che approvava la nascita della Regione Friulana,
cui avrebbero potuto aggiungersi i resti di quella che fu la Venezia
Giulia, ancora amministrata dagli alleati (dicembre 1946). La Regione
Friulana diventava Regione Friuli e Venezia Giulia in sede di
coordinamento di detta Sottocommissione, mentre la Commissione
demandava alla Costituente ogni decisione per un’autonomia
particolare del Friuli-Venezia Giulia (febbraio 1947). E l’Assemblea
approvava detta autonomia particolare (giugno 1947).
Sennonché votava poi una norma transitoria, per cui la nuova Regione
sarebbe stata “provvisoriamente retta” secondo la norme previste
per le Regioni normali (ottobre 1947). Passa un anno, passa un altro,
il Senato, proponente Luigi Sturzo, dichiarava decaduta detta norma
transitoria: poteva nascere il Friuli-Venezia Giulia con autonomia
particolare (febbraio 1955). Ma, perché avvenisse il miracolo,
bisognava attendere ancora sino al 1964. Così va il mondo, anzi lo
Stivale.
E a casa nostra,
cosa bolliva in pentola? Lasciamo perdere date e avvenimenti precisi
(tutti passati davanti ai nostri occhi, e del resto già
abbondantemente documentati), per affidarci in toto alla memoria. Il
Friuli è rimasto esattamente vittima della politica del carciofo,
che si perpetua ancora oggi. Trieste –
la più italiana delle città italiane per definizione – era,
com’è, molto ascoltata dai Sette Colli. Meglio, si è sempre
fatta ascoltare: dalla sua dedizione all’impero degli Asburgo
(1381) preferito a Venezia, all’età felice di Maria Teresa, sino
al raggiungimento del Quarnaro, che “Italia chiude e i suoi termini
bagna” (Dante). Ma occorreva attendere una seconda redenzione.
Defunto o meglio mai costituito il Territorio Libero previsto dal
trattato di pace, scomparivano anche la zona A di detto Territorio
(ad amministrazione italiana) e la Zona B (ad amministrazione
jugoslava). Così Trieste era tornata fra le braccia della Gran Madre
(ottobre 1954). Di quella strada il centro politico della Regione non
rimaneva più Udine, naturale baricentro, ma Trieste, decentrata
fuori centro. Un
matrimonio d’interesse tra il Friuli e la Giulia, è stato detto.
Interesse per i triestini: ma per i friulani?
Tacquero, abituati a servire e tacer. I friulani o meglio i partiti
avevano ceduto bel bello una primogenitura. In cambio di che? “Parola
dita no torna indrio”, recita un detto sulle Rive: il presidente
della Regione sarebbe dovuto essere in perpetuo un friulano. Davvero?
Ecco che nel 2003 subentrava un triestino doc, originario dalla Lista
per Trieste, e non sarebbe stato il solo. Ben gli sta ai furlani.
Guardiamo
ora come si è concretata la predetta politica del carciofo, mercé
la quale, tolte le foglie una dopo l’altra, non rimane che il
gambo.
Questo il lungo travaglio della Regione, data a mezzadria ai politici
che l’avevano in appalto. Ci
fu raccontato per gradi:
La
Regione Friulana sarebbe nata provvisoriamente con autonomia normale
(Trieste era di là da venire);
Trieste
(ritornata a noi) avrebbe dovuto avere una collocazione particolare
in seno alla Regione, con Udine capoluogo;
la
Regione avrebbe avuto come capoluogo Trieste, però con Province
autonome, tipo Trento e Bolzano;
niente
Province autonome, ché non aveva importanza essere capoluogo: la
Regione avrebbe attuato il decentramento sugli enti locali, cioè
Province e Comuni (tale l’imperativo della Costituzione e dello
Statuto);
decentrare
sugli enti locali risultava praticamente impossibile.
Il
sistema della sottrazione con destrezza continua.
Ora attendiamo che vengano cancellate le Province (dicono per
risparmiare): così Udine, Gorizia e Pordenone decadranno a sedi
periferiche di uffici della Regione, mentre Trieste (questo è
sicuro) diverrà un doppio concentrato di potere. E di questo passo
il Friuli, se non si sveglierà, diventerà una pura denominazione
geografica. “Questo di tanta speme oggi mi resta”, direbbe Ugo
Foscolo.
In
cambio di tanta umiliazione inferta a dosi omeopatiche, qual è stato
il ricavo? Basta sfogliare i giornali,
limitandoci alle ultime settimane. Ecco qualche titolo. Spariranno le
Province entro il 2018, Rivolta contro la riforma delle Province,
Addio alle Province, Grave la cancellazione delle Province, Le
Province non ci saranno più, Salveremo le Province, Senza Province
l’identità in pericolo. E via di questo passo. Ma per questa
riforma occorre una legge costituzionale, con doppia lettura alle
Camere. C’è da notare per altro che le Regioni a statuto
particolare non sono affatto tenute ad attuare la prevista
sparizione. Ma ecco che, al primo annuncio della riforma che parlava
solo di Province piccole da sopprimere o da accorpare, l’allora
presidente della Regione autonoma, che non crede nell’autonomismo,
si affrettò l’indomani stesso a plaudire, aggiungendo che magari
si potevano sopprimere tutte. Anche l’attuale presidente (che non è
provinciale essendo oriunda romana) pregusta l’ora della
sparizione.
Altro
argomento. La lingua friulana, minoritaria nell’intero Stato e
maggioritaria nella Regione, costituisce una delle realtà fondanti
dell’autonomia particolare. Viene valorizzata o almeno difesa,
cominciando dalle scuole? Ancora i giornali: Dimezzati i
fondi destinati alla madrelingua, Prima le promesse e poi i tagli, Un
milione 165 mila al teatro “Verdi” di Trieste, Pochi soldi al
friulano: 875 mila, All’agenzia per la lingua friulana 400 mila da
uno 300 mila, Praticamente dimezzato il contributo alla Filologica. E
il friulano nelle scuole, a norma di legge? “Un’ora sola ti
vorrei” (come dice la vecchia canzone) alla settimana. Ma per la
Regione più che autonoma la lingua materna rimane fuori dalla porta:
non
vale neanche che la netta maggioranza delle famiglie lo richieda.
Un po’ per ridere e un po’ per non morire: il Consiglio comunale
di Trieste sorella, che non c’entra, ha votato a suo tempo un
ordine del giorno contro la lingua friulana.
II.
Ancora la favorita,
rispetto al friulano “salt, onest, lavoradôr”. Ha
detto 50 anni fa un sindaco della città adriatica che il Friuli è
il suo contado. E lo si vede quotidianamente sui
giornali. Sono troppi gli ospedali per la Regione. Come che sia, è
previsto un taglio di 100 milioni alla Sanità. Meglio però gli
ospedali pochi ma grandi (il capoluogo della Regione bicipite ne ha
due), e i malati facciano il piacere di muoversi. Quello di Gemona,
pare, perderà 4 milioni, 3 Cividale. Tolmezzo, cancellato il
Tribunale appena costruito, sarà ridimensionato: taglio inaugurale
di 9 milioni. Dimenticavamo San Daniele. Penalizzata Gorizia,
penalizzata la montagna, penalizzata la Bassa nonostante la
efficienza. Piazza pulita dei piccoli ospedali, nati nei secoli dalla
pietà cristiana? Inutili i doppioni: occorre accentrare al centro,
dove si allungano le code dei pazienti in attesa nei corridoi, mentre
le vie adiacenti sono diventate un parcheggio sempre più dilagante.
C’è
la crisi, non ci sono soldi, ci avvertono. Dicevamo dei 14 milioni
elargiti al teatro “Verdi” di Trieste, sostanzialmente
collassato: ma che siano gli ultimi, come ha
scritto questo giornale. In tanti anni non si è riuscito a far altro
che aumentare debiti. Disattese invece le promesse alla Orchestra
sinfonica di Udine. Ammonisce l’assessore regionale competente:
l’Orchestra non è paragonabile con il “Verdi”. Fortuna per
Trieste che il Friuli c’è, dice qualcun altro: porteremo il
“Verdi” in periferia. Spiega
la presidente della Regione: per accedere ai fondi nazionali, il
teatro doveva avere i conti in ordine, così li abbiamo raddrizzati.
L’Associazione teatrale friulana si è vista negare il contributo
annuo di 40 mila euro.
“Trieste mia, che
nostalgia”. Cancellate le aziende per la edilizia residenziale, se
ne farà una sola. E l’amministratore unico di Trieste sarà il
meglio rimunerato, perché il patrimonio edilizio di quella Provincia
(con ben sei Comuni, un primato in Italia) è il più ampio. Si va
verso la razionalizzazione. Così il fondo per la montagna passa dai
6 milioni a 800 mila.
Quanto
alle così chiamate grandi opere, la Regione
non potrà mettere lingua se non per assentire. “Grandi opere,
grandi affari”, ha scritto qualcuno. I treni ad alta velocità o ad
alta capacità sono strategici, affermano quelli che li vogliono
(intanto i pendolari imparano che, abbastanza spesso, un’ora di
viaggio può diventare tre). Bisognerebbe quadruplicare le linee
esistenti, a costo di demolire qualche casa e qualche stalla. Sono
poi di grande attualità anche gli elettrodotti. Proprietaria della
intera rete di trasmissione nazionale di energia elettrica (utili del
primo semestre 2013: 411 milioni), la Terna ha avuto il nulla osta
della Regione quanto all’elettrodotto Redipuglia-Udine, con piena
soddisfazione degli industriali. Altre iniziative in vista, da cui
l’allarme della stampa. Incompatibilità delle opere, leggiamo,
imposte dai monopoli della energia. Si profila all’orizzonte un
elettrodotto fra Okroglo (Slovenia) e Udine: deturperebbe le valli
del Natisone, la cui ricchezza è tutta nel paesaggio. Allarme
ingiustificato, assicurano i padrini; impatto devastante,
garantiscono i residenti. C’è l’incubo dei tralicci, alti magari
60 metri; gli interramenti non piacciono ai cavalieri d’industria.
Per fortuna una
buona notizia, anche se ritardata. La Corte di cassazione ha bocciato
l’annoso progetto delle casse di espansione tra Dignano e Pinzano,
che avrebbero devastato cinque Comuni e compromesso il Tagliamento,
alla modica spesa di 50 milioni di euro. Per carità: altre sono le
vie per mettere in sicurezza il Latisanese da eventuali piene.
In questi ultimi
anni, le Regioni sono decadute alquanto, per l’uso talora
disinvolto del potere, tanto che da qualche parte si vorrebbe ridurre
le materie su cui possono legiferare. Più di un potente si è
segnalato per esercizi di abilità. E l’esempio è venuto da alto
loco. Un referendum del 1993 aveva bocciato il finanziamento pubblico
dei partiti col 90 per cento dei voti. Dopo due decenni, ci si
assicura ora che detto finanziamento sparirà (tempo tre anni): ma
praticamente solo nel nome e non nella sostanza, e si chiamerà
contribuzione volontaria. Il costo della politica, o meglio dei
politici, vale oggi oltre 23 milioni l’anno, come a dire 750 euro
per ogni cittadino, neonati e centenari compresi. Ma c’è chi
prevede che, a pieno regime, la cifra salirà, attraverso contributi
pubblici e privati, a 40 milioni. Comunque, tranquilli: la legge
relativa è ferma in Senato. A proposito di soldi, apprendiamo
frattanto che il Demanio possiede stabili sfitti per 5 miliardi
l’anno, mentre sborsa 750 milioni in canoni per altri stabili in
affitto. Gli esempi trascinano. Nel suo piccolo, la Regione siciliana
costa 160 milioni l’anno, quanto a retribuzioni ai 90 onorevoli
deputati (si fanno chiamare così), ognuno dei quali pesa nella
misura di un milione 770 mila euro, come a dire 14 mila 800 euro
netti al mese. Siamo ricchi.
Torniamo a nord,
esattamente in Campidoglio, dove ha sede il Comune di Roma. Non è un
Comune qualunque, se annovera 37 mila dipendenti: una città. E’ un
debito di 864 milioni. Niente paura: un decreto legge, detto Salva
Roma, provvederà appunto a salvarla dal fallimento. Non è il primo
aiutino concesso in premio ad altre città non virtuose.
Vien quasi da
vergognarci noi furlan-giuliani o giulian-furlani per certe libertà
concessesi da alcuni amministratori regionali. Sciocchezze: si son
fatti rimborsare viaggi privati, pranzi e cene, financo sigarette e
qualche mobile, una lavatrice, un forno a microonde, cavi di
alimentazione, hard-disk, stilo, alimentari, portatili, iPad,
pentole, calzature, super-alcolici, pizze, televisioni, lampade: in
parte giustificato o già restituito a cortese richiesta. Poca roba,
anche se fuori legge: leggerezze, appunto.
E
i vecchi ideali? Idee come tante.
Prof.
Gianfranco D'Aronco
"Presidente Onorario"
Comitato per l'autonomia
e il rilancio del Friuli
.........
L'articolo
a firma del Prof. Gianfranco D'Aronco è stato pubblicato sul
quotidiano IL MESSAGGERO VENETO (Ud) – martedì 28 gennaio 2014 - pag. 38 e pag. 39.