mercoledì 25 agosto 2010

L illusione di una bugia

Messaggero Veneto — 20 agosto 2010 pagina 07 sezione: UDINE
di PAOLO MEDEOSSI
Quello friulano passa per essere, in Italia, uno dei popoli più riservati, laconici e anche malinconici. Vero o solo un luogo comune? Veniva da ripensarci l'altro giorno quando, citando su queste pagine il grande Sergio Maldini, saltava fuori da un libro il fatto che la sua esistenza era stata segnata dallo spleen del Nord Est. Spleen , ovvero, in termini letterari, la tristezza meditativa o la malinconia, secondo il termine reso famoso da Baudelaire. Ma, citazioni a parte, siamo veramente così? È questa l'idea che diamo di noi? Musoni, chiusi, poco propensi alla comunicazione, eccetera? Sì, secondo lo scrittore pordenonese Gian Mario Villalta, il quale lo scorso anno nel pamphlet Padroni a casa nostra affermava che in effetti è questa l'immagine che, mediamente, forniamo a connazionali o stranieri che vengono a vivere dalle nostre parti. Cercando prove un po’ significative al riguardo, possiamo ricordare un'altra pubblicazione, uscita addirittura nel 1946 a cura di Gianfranco D'Aronco che allora aveva appena 26 anni, ma era già un protagonista sulla scena politica e culturale in Friuli. Nella sua Piccola antologia della letteratura friulana , stampata da Ribis, proprio per dimostrare che la laconicità è il dato saliente nel carattere dei friulani e quindi anche di scrittori e poeti, D'Aronco faceva questo esempio. «Sfogliando le annate della rivista Ce fastu? abbiamo riletto recentemente una brevissima scenetta.
Durante la prima guerra mondiale, due alpini, padre e figlio, che non si vedevano da mesi, scendono in città a Udine da due diversi settori del fronte e per caso s'incontrano. Un lieve cenno di sopracciglia: - Oh mandi! - Mandi. - Cemût? - Ben iò. E tu? - Ben. Silenzio. E poi... - Lino a bevi un quart? - Anìn. Ci sembra – concludeva D'Aronco – che queste battute rappresentino efficacemente (a parte la... sfumatura del “quart”) il carattere dei friulani». Simpatico e curioso no? Insomma, quale testo in cui rintracciare le ragioni del nostro modo di esistere potremmo adottare un libretto dato alle stampe nel Settecento dall'abate francese Dinouart, ovvero L'arte del tacere , nel quale narrava i vantaggi racchiusi nell'archeologia del silenzio e nell'uso delle parole basato sull'assioma: «Chi parla o scrive più di quanto sia richiesto annoia sempre... Raramente ci si lamenta della brevità, mai della lunghezza».
E per finire in gloria eccoci all'inevitabile approdo pasoliniano, in particolare alla frase in cui Pier Paolo, parlando dei friulani, disse: «Questo popolo è insieme così nordico nel suo moralismo e invece così meridionale nel suo abbandono melico, insieme goffo e agile, duro e allegro». Chissà, forse il poeta di Casarsa aveva ragione nel definirci così: duri e allegri. Per averne una piccola conferma basta fare una cosa semplice, andare in queste sere d'estate in una delle sagre che tengono banco, pioggia permettendo. Se sono ancora vere e sincere, trasmettono sensazioni profonde e ingenue, emozioni latenti e pur e la convinzione che, se si è di questa terra, è impossibile non avvertire una sorta di “richiamo della foresta” di fronte a certi modi di stare insieme, di comunicare, di divertirsi. Il test della musica popolare, appunto la colonna sonora delle sagre con musicisti e complessini che non appaiono mai sui giornali e che pure sono nomi di spicco nei nostri paesi, è importante, anzi fondamentale. Valzer, polke e tanghi si susseguono attraverso motivetti dalle note briose, ma dai testi spesso di una malinconia micidiale e struggente (fra mamme addolorate, figli che partono, fidanzate inghiottite nel nulla, guai quotidiani...). Sul momento, se non si è abituati, ci si potrebbe sentire annichiliti da tanta tristezza inzuppata in una situazione che dovrebbe essere invece allegra, ma un po' alla volta lo sconcerto passa. E si balla. Tutto diventa così normale e necessario risvegliando sentimenti sepolti dentro di noi, sotto quintali di indifferenza, di disabitudine nel sentirsi friulani. Il tracollo definitivo arriva quando, immancabilmente, parte Gnòt d'amôr , parole e musica di quel diavolaccio di Ermes Di Lenardo (in arte Sdrindule). «E tu vas vie, cence dimi nuje, ilusion di un moment, di une gnòt, di una bausie» . Avete presente? Se andate su Internet trovate il video. A quel punto, commosso e colpito al cuore dal tormentone in marilenghe, pure il più scettico e incredulo si arrende e ammette: sì, sono friulano...

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