giovedì 11 febbraio 2016

FUSIONE COMUNI: COSI' NELLA TOSCANA DI MATTEO RENZI....




DOSSIER

FUSIONE COMUNI

COSI' NELLA TOSCANA

DI MATTEO RENZI...

i Comuni sono in rivolta!!!

"E se è passata nel mugugno e silenzio di tanti la riforma e abolizione delle Province (oggi l’assenza di un ente sovracomunale comincia a farsi sentire) altrettanto indolore non sembra preannunciarsi la nuova ondata democratica di rottamazione dei Comuni. Il caso del referendum Abetone e Cutigliano, su cui d’imperio il Consiglio regionale ha deciso, ha creato l’allarme. E molti primi cittadini stanno cominciando a far sentire la loro voce. Sabato prossimo saranno alcuni sindaci dell’area livornese e pisana a trovarsi a Guardistallo e per il 12 marzo a Volterra è attesa un’invasione di primi cittadini di Comuni “dimenticati”.

Ma ad allarmare il Pd è stato ieri il documento siglato da 13 primi cittadini di comuni senesi. Più di un terzo. E tra questi molti sindaci piddini, da Luciana Bartaletti di Chiusdino a Claudio Galletti di Castiglione d’Orcia, Eva Barbanera di Cetona e Raffaella Senesi di Monteriggioni, Francesco Fabbrizzi di Radicofani, Emiliano Bravi di Radicondoli, Paolo Morelli di San Casciano dei Bagni, Giacomo Bassi di San Gimignano e Roberto Machetti di Trequanda. E non si sono preoccupati di firmare insieme ai civici Andrea Marchetti di Chianciano Terme, Piero Pii di Casole d’Elsa, Luigi Vagaggini di Piancastagnaio, Fabrizio Fè di Pienza. In gioco c’è la stessa sopravvivenza dei loro comuni e non sono stati a guardare l’appartenenza politica dei cofirmatari.
 

(…) Già, la questione finanziaria non è poi così secondaria e riguarda le risorse che la Regione Toscana mette sul piatto in caso di fusioni tra Comuni. Una cosa francamente strana perché anziché premiare i progetti (strade, scuole, infrastrutture, servizi) si premiano i comportamenti. E qualcuno poi ha il coraggio di dire che così si tiene in conto le esigenze dei cittadini?"

MICHELE TADDEI - 4 febbraio 2016
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 PROVINCIA DI SIENA
 
MANIFESTO IN DIFESA
DEI PICCOLI COMUNI ITALIANI

3 febbraio 2016

I piccoli comuni rappresentano la grande maggioranza degli 8.000 comuni italiani. Piccoli rispetto al numero di abitanti delle realtà cittadine e metropolitane, ma spesso grandi sia nella loro estensione geografica, sia in riferimento alle risorse economiche, sociali e culturali che sono conservate nei loro confini.

I nostri padri costituenti, con chiara in mente la lunga tradizione civica dei comuni, inclusero tra i principi fondamentali a cui avrebbero dovuto ispirarsi le politiche della Repubblica il riconoscimento del ruolo delle autonomie locali, attraverso l'adeguamento dei principi e dei metodi della legislazione “alle esigenze dell’autonomia e del decentramento” (art. 5 della Costituzione).

Il Comune è l’elemento centrale di una solida tradizione civica italiana che dal Medioevo giunge fino alla Costituzione repubblicana.

In Italia, più che altrove, i territori locali fondano il loro profilo istituzionale sul Comune, che rappresenta il livello primario della democrazia e della rappresentanza politica.

Specialmente nei piccoli comuni, il Municipio e il Sindaco sono un punto di riferimento insostituibile per i cittadini e simbolicamente il Gonfalone rappresenta un importante riferimento identitario in una società sempre più priva di punti di riferimento collettivi.

In una fase storica come quella che stiamo vivendo, caratterizzata dal progressivo allontanamento dai cittadini dai luoghi decisionali, dall’irruzione dei poteri economico-finanziari nei processi di governo, dal diffondersi di sentimenti diffusi di antipolitica che alimentano i populismi, è necessario un rafforzamento del ruolo dei comuni, cioè l’esatto contrario del loro smantellamento.

Bisogna adoperarsi per il mantenimento di un presidio democratico dentro le comunità locali, per il rispetto e la valorizzazione delle identità locali e per il rilancio del ruolo dei Consigli Comunali come luogo di partecipazione politica.

Dobbiamo sostenere i piccoli comuni nella loro attività di erogazione di quei servizi fondamentali ai cittadini che, per caratteristiche intrinseche, enti di più grandi dimensioni non riuscirebbero a fornire con altrettanta efficacia e puntualità. Un buon governo locale non riproducibile su dimensioni troppo vaste.

Se i piccoli comuni sono in difficoltà dobbiamo aiutarli a vivere, non a morire.

Purtroppo invece il modo in cui oggi molta parte della classe politica italiana affronta il tema delle fusioni dei comuni, proponendone in alcuni casi l’obbligatorietà per legge, in altri promuovendo processi che ne sanciscono l’obbligatorietà di fatto, segna un insostenibile attacco alle autonomie locali ed all’esistenza stessa dei piccoli comuni.

Un attacco condotto sulla base di un approccio contabile-amministrativo che, non solo non tiene conto di altre dimensioni, ma soprattutto non si fonda su alcuna evidenza oggettiva di dati economici e finanziari. I quali dati mostrano come in realtà l’impatto dei costi dei piccoli comuni nella spesa pubblica nazionale sia del tutto marginale, sia in valore assoluto che percentuale.Altri sono i centri di spesa improduttivi nel nostro Paese.
  
Assistiamo ad analisi fondate solo sul parametro del numero degli abitanti, che impediscono di comprendere come i processi di fusione, soprattutto nelle zone rurali, possano creare, o aggravare, le criticità connesse all'estensione territoriale dei comuni, la cui eccessiva ampiezza incide negativamente sull'efficienza nell'erogazione dei servizi ai cittadini.

Ci troviamo di fronte a proposte che non tengono conto delle profonde differenze tra le aree del Paese, che conta Regioni come la Lombardia con un numero di comuni pari a 1.500 con una media di 6.500 abitanti o il Piemonte con i suoi 1.200 comuni con una media di 3.600 abitanti, ed altre come la Toscana che invece ne conta 279 con una media di 13.450.

Oppure ad attacchi strumentali condotti utilizzando numeri per creare sensazione, facendo ritenere che gli 8.000 comuni italiani, circa uno ogni 7.500 abitanti, siano un’insostenibile anomalia, quando ad esempio la Francia, Stato tradizionalmente centralizzatore, ne ha 36.000, cioè uno ogni 1.700 abitanti, e non si sogna di mettere in discussione l’esistenza dei piccoli Comuni, pur pretendendo un’organizzazione sovracomunale dei servizi.

Le politiche di razionalizzazione devono infatti riguardare la gestione dei servizi comunali, dai quali derivano i costi e dipende l’efficienza dell’azione amministrativa, e non gli organi di rappresentanza politica.

Sui costi dei quali organi politici si alimentano demagogie, nascondendone la loro reale portata, spesso così esigua da configurarli nella sostanza come un’attività condotta localmente per mero spirito di volontariato.

Le necessarie e improrogabili politiche di razionalizzazione, valorizzazione e coordinamento di territori e comunità debbano essere perseguite, con convinzione e determinazione, utilizzando gli strumenti delle associazioni dei servizi, attraverso convenzioni e soprattutto nelle Unioni dei Comuni.
Le unioni e le convenzioni vanno considerati un modello istituzionale stabile - non qualcosa di propedeutico alla fusione – e devono assicurare servizi efficienti con minori costi. Laddove non si raggiungano questi obiettivi ciò non può essere pretestuosamente imputato al modello associativo in quanto tale, ma semmai alla mancanza di convinzione negli Amministratori o alla inadeguatezza delle relative previsioni normative nazionali e regionali, e non può dunque costituire un alibi per invocare fusioni.

Le fusioni tra comuni, invece, devono essere portate avanti solo dove esista una chiara, inequivocabile ed esplicita volontà, espressa direttamente dalle singole popolazioni interessate, conseguente a situazioni di reale marginalità abitativa e ad una riconosciuta perdita di coesione sociale e del senso di comunità.

3 febbraio 2016


Firmato 

Piero Pii, Sindaco del Comune di Casole d’Elsa

Claudio Galletti, Sindaco del Comune di Castiglione d’Orcia

Eva Barbanera, Sindaco del Comune di Cetona

Andrea Marchetti, Sindaco del Comune di Chianciano Terme

Luciana Bartaletti, Sindaco del Comune di Chiusdino

Raffaella Senesi, Sindaco del Comune di Monteriggioni

Luigi Vagaggini, Sindaco del Comune di Piancastagnaio

Fabrizio Fè, Sindaco del Comune di Pienza

Francesco Fabbrizzi, Sindaco del Comune di Radicofani

Emiliano Bravi, Sindaco del Comune di Radicondoli

Paolo Morelli, Sindaco del Comune di San Casciano dei Bagni

Giacomo Bassi, Sindaco del Comune di San Gimignano

Roberto Machetti, Sindaco del Comune di Trequanda
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Dal sito www.agenziaimpress-it



C’è chi dice no. L’altra Toscana che non ci sta a farsi cancellare il Comune e si autoconvoca
 
di Michele Taddei

10 febbraio 2016


­Un’altra Toscana c’è e batte un colpo. A Guardistallo, in provincia di Pisa giusto sopra la piana che scende a Cecina, sindaci e amministratori, ma anche semplici cittadini, del pisano e livornese si sono dati appuntamento nel teatrino ottocentesco “Virgilio Marchionneschi” per discutere di unioni e di fusioni. Un tema di grande attualità nella nostra Regione dopo quel che è accaduto con la fusione forzata di Abetone-Cutigliano da parte della Regione e conseguente annuncio di ricorso al Tar del comune di Abetone. Ne è venuto un coro unanime di no alle fusioni forzate e un sì ai Comuni, mentre fuori, in piazza, si festeggiano gli ultimi giorni di Carnevale, con bambini vestiti a maschera e musiche sparate che si diffondono nelle vie del paese .

Battaglia di civiltà senza partiti «La nostra è una battaglia di civiltà e in favore delle comunità. Non è politica partitica ma difesa dei nostri territori», ha detto Paolo Moschi, assessore al comune di Volterra e animatore di Toscana Civica, la federazione delle liste civiche presenti in sempre più Comuni. «Pretendiamo di dire la nostra in un dibattito che vuole eliminare secoli di storia eliminando i Comuni, in nome di presunti risparmi che poi si traducono solo in minori spazi di democrazia e rappresentatività». Alle porte una nuova consultazione popolare in programma il 16 e 17 aprile prossimi tra i comuni di Castellina marittima (duemila abitanti circa) e Riparbella (poco più di milleseicento), e in molti vogliono capire meglio vantaggi e svantaggi di questo passaggio che non sarà indolore per le comunità coinvolte.

«L’attaccamento al paese non è negativo» Dal 2012, si legge in una nota di Anci Toscana, si sono tenuti diciassette referendum per decidere o meno su fusioni, in otto casi l’esito è stato positivo. E i comuni toscani sono passati da 287 a 279 (leggi). Dove i cittadini hanno stoppato il percorso di soppressione del proprio comune fu nel 2013 in provincia di Livorno, a Suvereto, dove era in programma la fusione con Campiglia Marittima. All’incontro di Guardistallo, a portare la propria testimonianza, c’era il sindaco, Giuliano Parodi, che di quella consultazione fu fervente animatore per il mantenimento del municipio. «Saremmo stati una frazione di Campiglia e i cittadini lo capirono e si espressero in modo contrario. Del resto, essere attaccati al proprio territorio non è un fatto negativo. E a Suvereto ci siamo svegliati, e stiamo dimostrando che niente di quel che veniva detto allora si è verificato, nessun dissesto finanziario né fine dei servizi per i cittadini. Anzi, oggi stiamo migliorando i servizi comunali e facciamo investimenti sul territorio. È come si gestiscono le risorse che conta e non le politiche del partito di appartenenza». «L’idea di qualcuno nel Partito Democratico – ha detto – è di creare un potere centralizzato nelle mani di pochi, per diminuire la rappresentanza democratica nei territori ed avere meglio il controllo ed impedire ai cittadini di organizzarsi», ha chiuso tra gli applausi.

«Pecore in balia di lupi» «Sono sindaco e, dunque, primo cittadino di Guardistallo, ma io intendo questo compito come il primo che deve servire i cittadini», aveva detto in apertura Sandro Ceccarelli. «Siamo usciti dall’Unione dei Comuni perché non si poteva, ad esempio, fare un regolamento urbanistico per cinque realtà diverse, mentre sono favorevole ad una gestione dei servizi in forma associata e senz’altro con Casale Marittimo ci daremo una mano. Ma rimango convinto che creare un comune unico di grandi dimensioni serva solo ad avere un contenitore di voti in cui tutto si appiattisce e dove la gente non conta più nulla. E se noi sindaci finiamo per non essere più punti di riferimento per la comunità rischiamo di lasciare le pecore in balia delle lupi». Inutile dire che gli applausi nel teatro sono scrosciati spontaneamente.

Riforme non convincenti Qui non sembra avere convinto i primi cittadini la riforma Del Rio sulle Province (legge n. 56/2014) che ha eliminato il costo irrisorio della politica ma nient’altro, mentre i servizi non sembrano essere migliorati. Così come il refrain che il taglio dei Comuni serva per il risparmio della spesa pubblica. E non fa gola nemmeno lo “zuccherino” promesso dei 250 mila euro all’anno per cinque anni di maggiori contributi regionali, fino ad un massimo di un milione di euro per ogni fusione, cui si potrebbero sommare i finanziamenti statali raddoppiati dalla Legge di Stabilità.

«Anci non ci rappresenta» «Dobbiamo fare una battaglia di democrazia, qui in Toscana dove è nata la civiltà comunale – ha spiegato Alberto Ferrini di Castelnuovo Val di Cecina -. Veniamo da anni di propaganda contro i campanili come fossero il male e ci viene detto che dobbiamo annientarci, sarebbe come se il presidente della Regione volesse distruggere il vino e l’olio nella nostra Regione. I Comuni sono l’ossatura di queste terre. Abbiamo l’Associazione Anci che non ci rappresenta. Ed è bene che cominciamo a portare dei numeri e fare battaglie insieme ed organizzarci, se continua il grande disprezzo della democrazia da parte da chi governa a livello nazionale e regionale».

«Che qualcuno nel Pd si muova» Tra gli interventi più apprezzati quello di Sandro Cerri, sindaco di Montecatini val di Cecina, del Pd. «Su questa vicenda non la penso come i nostri parlamentari che vogliono fonderci per forza. Siamo l’ultimo avamposto sul territorio e non possiamo indietreggiare nel rapporto con i cittadini. Dal 2010 una legge scellerata obbliga i Comuni a associare tutti i servizi e questo ha iniziato a creare un clima di incertezza normativa che tutt’ora perdura con il tema delle unioni e ora con la proposta di legge (Tra i primi firmatari proprio esponenti del Pd) che vorrebbe uniti i Comuni sotto 5.000 abitanti, cancellando secoli di storia. Spero che anche qualcuno del mio partito si muova per non ripetere la vergognosa vicenda del referendum di Abetone, quando si sono cambiate le regole a giochi finiti».

«Non vogliamo essere cittadini di serie B» All’incontro anche Marco Buselli, sindaco di Volterra, che ha ricordato come quando si parla di sprechi e ruberie nei Comuni non ci si riferisce certo ai piccoli centri semmai a grandi città, mentre stranamente si vuol chiudere i primi. «Io ho sentito parlare – ha detto – di leggi “SalvaRoma” o “SalvaCatania” e mai di leggi “SalvaGuardistallo. La verità è che vogliono renderci cittadini di serie B e farci perdere le nostre identità. Ma noi non ci stiamo perché la Toscana è sinonimo di identità e territorio. Per questo abbiamo convocato il 12 marzo a Volterra un’assemblea di tutti i Comuni italiani che dicono no a questa proposta indecente di legge».

­«Sfida da fare tutti insieme» «È una grande sfida ma dovete e dobbiamo farla», ha detto Roberto Cenni, già sindaco di Prato eletto con una lista civica e oggi consigliere di opposizione. «I sindaci sono il primo front office verso i cittadini ma i Governi fanno di tutto per togliere loro potere e risorse. Così si lede la rappresentatività dei cittadini, con il loro conseguente disamore per la cosa pubblica».

Poi, gli applausi di tutti i presenti e l’uscita dal teatro ottocentesco di questa adunanza di sindaci autoconvocatisi, quasi un manipolo di complottardi patrioti risorgimentali. Sanno che le forze a loro contrarie sono soverchianti ma non intendono arrendersi né riconsegnare la fascia tricolore. Gli sprechi, dicono, stanno da altre parti, non certo nelle loro comunità. In piazza, intanto, i bambini vestiti a maschera tirano coriandoli e suonano le lingue di menelicche. Chi aiuterà quei genitori ad organizzare il Carnevale in futuro quando il Comune sarà a un’ora di auto dalle proprie case?


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E IN FRIULI?
 
L'OPINIONE DI UN SINDACO FRIULANO

mercoledì 10 febbraio 2016

REGIONE: NO ALLE FUSIONI DEI COMUNI CALATE DELL'ALTO!



FUSIONE COMUNI
 
"MONFALCONE – RONCHI
STARANZANO"


I Consigli comunali di Ronchi e Steranzano, hanno già democraticamente deliberato di essere CONTRARI alla FUSIONE.

Perché dunque sprecare soldi pubblici per un referendum il cui  risultato negativo è già scontato? 

O alla Giunta regionale la batosta dell'80,77% di NO alla fusione "Azzano Decimo-Pravisdomini" non è stata sufficiente? Va cercando un'altra sicura batosta pur di non demordere da un suo "obiettivo politico"  già  rifiutato dai cittadini?
 
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 PER SAPERNE DI PIU'
 
 
1) "È nato il comitato "no fusione" . Iniziativa per coinvolgere i cittadini in un percorso teso a salvaguardare l’autonomia dei comuni di Ronchi dei Legionari, Staranzano e Monfalcone.

1
3/11/2015 di Guido Baggi"
 
 
2) Da Facebook "Comitato RONCHI No Fusione"
 
 
 
E l’art. 19 (Esito del referendum e adempimenti conseguenti)

1. Il quesito sottoposto ai referendum di cui agli articoli 17 e 18 è approvato quando la risposta affermativa ha raggiunto la maggioranza dei voti validamente espressi. Nel caso di fusione tra due o più Comuni, qualora il Consiglio comunale abbia espresso parere contrario all’iniziativa, per l’approvazione del quesito sottoposto a referendum è necessario altresì che in quel Comune la risposta affermativa raggiunga la maggioranza dei voti validamente espressi.
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L’ultimo capoverso significa che, avendo avuto il parere preventivo contrario dei Consigli Comunali di Ronchi dei Legionari e Staranzano, in quei Comuni vi deve necessariamente essere la maggioranza dei SI alla fusione, affinché il referendum si chiuda positivamente. Non vi può essere il conteggio complessivo dei voti dei tre Comuni, quindi il cittadino di ogni Comune è significativamente protagonista della scelta.
 
3) Da una intervista pubblicata su "LA VOCE ISONTINA"
 
 
(....)

DOMANDA:

Il comitato per il NO vede nella fusione una diminuzione di democrazia. La legge regionale prevede in caso di fusione la possibilità di mantenere, nei Comuni che si fondono, i Municipi con organi eletti direttamente dai cittadini. Come valuta questa possibilità? 

RISPOSTA: 

Considero i Municipi alla stregua dei Consigli di quartiere, dotati di mero potere consultivo. Uno sfogo utile per mantenere quella facciata democratica con la quale si intende nascondere le politiche decisioniste rese necessarie dalle assurde politiche deflazionistiche. Resistere a livello locale a questi furti di democrazia è per noi l’ultima trincea contro lo smantellamento del Bene Pubblico che è sotto gli occhi di tutti. Per animare questa nuova Resistenza dobbiamo far capire alla gente che la posta in gioco è molto più alta di quanto possa apparire. Tant’è vero che anche nel caso di supremazia del No, non è escluso, come lei ben sa, che una decisione della Regione possa scavalcare l’esito delle urne. Un po’ come Tsipras è stato costretto a fare in Grecia. Perciò è necessario che si voti in massa. Solo una vittoria schiacciante sarà ascoltata da chi di dovere.

DOMANDA:
 
"Noi non siamo contrari in linea di principio alla fusione tra realtà territoriali... siamo contrari a questa fusione": così è scritto nel volantino del Comitato per il NO. Quale è il motivo della differenza tra la linea di principio e la fusione che, in caso di esito affermativo del referendum, avrà un percorso stabilito da una apposita legge regionale?
 
RISPOSTA:
 
Ci sono esempi di fusioni tra comuni omogenei, cui si è arrivati con opportuno percorso di informazione e di consenso popolare. Sono progetti maturati col necessario tempo e che hanno un loro preciso e rispettabile senso. Il progetto di questa fusione calata dall’alto è invece improntato dalla fretta di arrivare al risultato, facendo uso della carota ma anche del bastone; come si fa con gli animali. Lo riteniamo offensivo per l’intelligenza della gente comune, oltre che insensato per una sfilza di ragioni che esporremo con ordine quando avremo finito di sistemare le nostre idee. Per adesso raccogliamo testimonianze da parte di cittadini che hanno già fatto questo percorso di fusione e raccogliamo le ragioni pro o contro espresse dai concittadini. Perché a noi interessa parlare con la gente più che col ceto politico.
(...)
 
4) E in un recentissimo passato....

"Azzano Decimo-Pravisdomini 80% di no alla fusione. Batosta per Panontin".

AZZANO DECIMO – Con uno schiacciante 80,77 per cento, i cittadini hanno bocciato la proposta di fusione tra i Comuni di Azzano Decimo e Pravisdomini.
 
I no alla proposta di fusione, nei 15 seggi tra Azzano Decimo e Pravisdomini, sono stati 5.763 (80,77 per cento), i sì 1.372 (19,23 per cento), le schede bianche 13, quelle nulle 29. Hanno votato 7.177 elettori dei due comuni (il 43,74 per cento degli aventi diritto), 7.135 i voti validi.
Scorporando i due comuni, il risultato non è molto diverso: nei 12 seggi di Azzano Decimo, infatti, il no ha raggiunto l’80,33 per cento (4.622 voti), il sì il 19,67 (1.132 voti): 5.790 i votanti (il 42,35 per cento), 5.754 i voti validi, 13 le schede bianche e 23 quelle nulle.
A Pravisdomini, i non sono stati ancora di più, 1.141 (l’82,62 per cento) contro i 240 sì (il 17,38). Ai tre seggi si sono recati 1.387 elettori (il 50,66 per cento), i voti validi sono stati 1.381, sei le schede bianche.
 
La popolazione dei due comuni, insomma, ha detto a chiare lettere che vuole restare divisa destinati e, come primo risultato, già sono state avanzate da più parti le richieste di dimissioni dei rispettivi sindaci, Marco Putto (Azzano Decimo) e Graziano Campaner (Pravisdomini).

Sconfitta di grosse dimensioni anche per la Regione, che si è spesa molto per le fusioni tra comuni e, soprattutto, per l’assessore alle Autonomie locali, Paolo Panontin, azzanese, e già sindaco della cittadina pordenonese.
                       
Pubblicato il 19 / 10 / 2015


5) LA STORIA E L'IDENTITA' DI UN TERRITORIO NON CONTANO NULLA? 
 
L'OPINIONE DI UN SINDACO
 
  
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sabato 6 febbraio 2016

REGIONE - PATTO TRA REGIONE E RFI: SI SCRIVE "FRIULIVENEZIAGIULIA" E SI LEGGE "TRIESTE"!!!


REGIONE

TRAFFICO FERROVIARIO

PATTO TRA REGIONE E RFI:
(Rete Ferroviaria Italiana)


Si scrive “friuliveneziagiulia

e si legge “ T R I E S T E ”!!!

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Dal sito internet del settimanale
LA VITA CATTOLICA


Patto tra Regione e Rfi:

ancora mistero

sulla “Tav” nella bassa

3.2.2016



Programmare la capacità di traffico ferroviario sulle linee del Friuli-Venezia Giulia per i prossimi 17 anni: a regime la produzione sarà di circa 3,6 milioni treni chilometro/anno; potenziare il trasporto regionale su ferro; migliorare i collegamenti tra la regione e Venezia e avviare collegamenti diretti con l'aeroporto di Trieste-Ronchi dei Legionari; sviluppare i collegamenti transfrontalieri sia verso l'Austria sia verso la Slovenia. Questi gli obiettivi strategici dell'Accordo quadro siglato oggi a Roma dalla presidente del Friuli-Venezia Giulia Debora Serracchiani e da Maurizio Gentile, amministratore delegato di Rete ferroviaria italiana (Rfi), presente l'assessore regionale alle Infrastrutture Mariagrazia Santoro. A prima vista sembra un accordo "senza spine", di puro miglioramento dei servizi per i cittadini su cui tutti non possono che concordare: al suo interno c'è pero la "grana" potenziale dell'«ammodernamento» dell'esistente linea Venezia Trieste che, secondo alcune anticipazioni filtrare dai vertici di Rfi, si risolverà invece con la creazione di nuovi 40 km di linea veloce nella Bassa Friulana, da Portogruaro a Cervignano, non distaccandosi di moltissimo dal progetto originario della Tav fortemente avversato dai cittadini per il grande impatto che avrebbe sulle comunità locali attraversate.
I contenuti innovativi
Ma andiamo con ordine, cominciando da contenuti manifesti dell'accordo. Con un successivo Protocollo d'intesa, Regione Friuli-Venezia Giulia e Rfi definiranno nel dettaglio gli interventi infrastrutturali e tecnologici da programmare e attuare nei prossimi anni per garantire la piena accessibilità e il miglioramento qualitativo delle stazioni del Friuli-Venezia Giulia; migliorare gli standard di regolarità e affidabilità della rete ferroviaria regionale; definire modalità di messa a disposizione di aree ferroviarie e spazi di stazione che favoriscano la realizzazione dei centri di interscambio regionali per sviluppare un autentico trasporto pubblico integrato con l'interoperabilità gomma/ferro e treno/bicicletta, quest'ultima grazie anche alla valorizzazione della connessione con la Rete delle ciclovie regionali (Recir). "Con questo Accordo di rilevanza strategica - ha evidenziato la presidente Serracchiani - il Friuli-Venezia Giulia rimane centrale nell'ambito del piano degli investimenti programmati dal Governo nazionale e da Rfi, con la prospettiva di riqualificare la rete ferroviaria regionale e rendere così più competitivo il sistema Regione. Da investimenti che non hanno paragoni nel recente passato ci attendiamo non solo un potenziamento del servizio ma anche la possibilità di esprimere appieno le caratteristiche della nostra Regione. Sono infatti previsti contenuti specifici con elementi di sostanziale novità che tengono conto del carattere peculiare del trasferimento delle competenze del sistema ferroviario dallo Stato alla Regione".
"L'Accordo quadro con la Regione autonoma Friuli Venezia Giulia - ha sottolineato Maurizio Gentile - è fondamentale per pianificare, in una logica di sistema, servizi che possano rispondere in maniera concreta alle esigenze di trasporto dei cittadini. Ciò grazie a collegamenti, tempi di viaggio e quantità dei treni che la Regione autonoma, attraverso le imprese ferroviarie di trasporto affidatarie dei Contratti di servizio, potrà programmare in base alla capacità di traffico disponibile. Non solo, l'Accordo sottoscritto con la presidente Serracchiani tiene anche conto di possibili sviluppi dell'infrastruttura regionale all'interno degli investimenti programmati di concerto da ministero delle Infrastrutture e Trasporti e Rfi. Ad esempio gli interventi di potenziamento infrastrutturale e tecnologico della linea convenzionale Venezia-Trieste e la nuova fermata Ronchi Aeroporto".
«Ammodernamento» della Venezia-Trieste, indicazioni ancora vaghe
In Friuli-Venezia Giulia, Rete ferroviaria italiana ha già oggi in programma, tra gli altri, interventi per velocizzare la linea Venezia-Trieste (valore 1,8 miliardi di euro) che, migliorando le prestazioni del tracciato ferroviario ed eliminando le criticità esistenti (raggi delle curve, passaggi a livello), consentiranno di innalzare la velocità della linea ferroviaria fino a 200 km/h: ciò permetterà di ridurre i tempi di viaggio tra Mestre e Trieste fino a 50 minuti in meno rispetto a oggi.
Sarà una nuova Tav mascherata
Cambiano le parole ma, gira e rigira, il «succo» resta lo stesso, temono invece i cittadini dei comuni attraversati dalla linea ferroviaria. Il tanto magnificato «ammodernamento», invocato per velocizzare la linea ferroviaria Venezia-Trieste e archiviare il mastodontico progetto della Tav, altro non è che... un'altra Tav! Quantomeno questo è ciò che si intuisce mettendo vicino i pezzi di un puzzle ancora tutto da comporre circa il progetto che, a detta del presidente di Rete ferroviaria italiana, Maurizio Gentile, dovrebbe vedere la luce a breve ed essere portato a compimento nel 2025. Era stato lo stesso Gentile a confermare, indirettamente, a margine di un forum dedicato ai collegamenti su rotaia tra Italia e Balcani a Trieste, che per l'«ammodernamento» della Venezia-Trieste si prevedono, tra l'altro, ben quaranta chilometri di nuovo tracciato sul quale far transitare treni ad una velocità costante attorno ai 200 chilometri orari. Cos'è questo se non il riemergere, sotto altro nome, della Tav? Non solo, Gentile ha ammesso anche che «buona parte delle opere era già prevista nella precedente progettazione». Il direttore esercizio di rete dell'asse orizzontale di Rfi, Giorgio Botti, ha confermato a «la Vita Cattolica» che il piano prevede varianti di tracciato in cinque punti della rete e una velocità che arriva a 200 chilometri all'ora. Cosa ci sarà di sostanzialmente diverso rispetto ai piani del 2010, accantonati perché eccessivamente impattanti e dispendiosi (la spesa prevista era di oltre 7,5 miliardi di euro, a fronte di 1,8 miliardi per l'«ammodernamento»)? C'è un altro elemento utile a completare il puzzle. Il «nuovo» progetto, guarda caso, si sta elaborando proprio a partire da quello (apparentemente) accantonato della Tav. A confermarlo è lo stesso Ministero dell'Ambiente, rivela Gian Carlo Pastorutti, presidente del Comitato No Tav di Bagnaria Arsa. Proprio al Ministero, infatti, la procedura di Via (Valutazione di impatto ambientale) del progetto del 2010 (Tav) è stata sospesa, perché, riferiscono dall'ufficio competente, Rfi ha chiesto di fare delle modifiche. Quali territori attraverseranno questi 40 chilometri di nuove rotaie? Non è ancora dato sapere. Eppure il fatto che i «nodi» da bypassare siano gli stessi oggi di cinque anni fa induce a sospettare che anche le soluzioni non si discosteranno troppo da quelle proposte allora. Per quanto riguarda il territorio della Bassa Friulana, Pastorutti non ha dubbi: «Quaranta chilometri di nuova linea significa che, come previsto nel progetto 2010 Tav, da Portogruaro a Porpetto le rotaie correranno parallele alla ferrovia esistente fino a Pampaluna, poi attraverseranno la frazione e penetreranno nel comune di Porpetto e a Bagnaria Arsa, per ricollegarsi alla linea storica a Cervignano, in prossimità dello scalo».

In tutto, almeno 30 chilometri di tracciato che smembrerebbe la Bassa Friulana.
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ALCUNE DOMANDE ALLA
PRESIDENTE SERRACCHIANI
POSTO CHE:
1) il principale snodo ferroviario regionale è UDINE e non TRIESTE, a meno che  la geografia non sia diventata una "opinione politica"....
2) I vari FRECCIA (diretti) Trieste/Mestre/Milano o Roma - pagati a peso d'oro dalla regione con fondi di tutti i cittadini di questa regione -  ci risulta NON FERMINO nella Bassa friulana ma siano a servizio ESCLUSIVAMENTE dei triestini (il 15% della popolazione regionale e rappresentativi di una porzione infinitesima del territorio regionale)
3) il numero dei passeggeri TRIESTINI che utilizzano il trasporto ferroviario "Trieste - Mestre", ci risulta essere decisamente basso. E' possibile conoscere il numero dei biglietti venduti per i  treni in partenza da Trieste? O è un segreto di Stato da non divulgare?

4) Il porto di Trieste ( un porto di transito al 70% petrolifero....) non necessita di linee ferroviarie ad alta velocità (che sono notoriamente linee dedicate al trasporto passeggeri) ma, eventualmente, dell'alta capacità ferroviaria verso l'Austria, via Udine. 
5) I crocieristi che si imbarcano o sbarcano a Trieste, non utilizzano di prassi il treno ma i bus messi a disposizione dalle agenzie turistiche o l'auto propria: dunque a Trieste servono piazzali per i parcheggi delle auto e dei bus e non certamente treni ad alta velocita!!! 
6) Aereoporto regionale di Ronchi dei Legionari (Provincia di Gorizia): è un aereoporto senza futuro perché geograficamente decentrato rispetto al territorio regionale  (risulta sia stato collocato a Ronchi perchè così PRETESE a suo tempo Trieste!) e non sarà  certamente la costosissima così detta "metropolitana leggera" Trieste-Ronchi" a rivitalizzarlo. Ogni accordo commerciale con l'aereoporto "Marco Polo" (SAVE) Tessera/Venezia fu rifiutato da una politica regionale miope e oggi, mentre gli aereoporti secondari della regione Veneto "decollano alla grande", l'aereoporto regionale è in grandissima difficoltà....
DOMANDE:
1) che senso ha velocizzare la linea ferroviaria Trieste - Mestre  che già oggi risulta  poco utilizzata e al servizio della sola Trieste? Spenderemo una valangata di soldi pubblici solo per fare arrivare pochi triestini 30 minuti prima a Mestre?

La Giunta regionale vuole spendere ben un miliardo e ottocento milioni solamente per far risparmiare mezz'ora di tempo ai pochi triestini che vogliono andare in ferrovia a fare il week-end a Venezia?

  E i Friulani? Ai passaggi a livello della Bassa Friulana a salutare con un "mandi, mandi" i treni che vedranno sfrecciare a 200 km all'ora senza fermarsi nelle stazioni del loro territorio? Per poi andare ad ammirare (si fa per dire!!!) una Bassa Friulana "massacrata" dalla nuova TAV voluta dai triestini smaniosi di trasformare Trieste nella "Grande metropoli giuliana"?
2) la PRINCIPALE linea ferrovia regionale non è forse la linea "Trieste - Gorizia - Udine - Pordenone - Mestre/Treviso", con PERNO su Udine?

Perché non si investe dunque soprattutto su questa fondamentale linea ferroviaria che interessa il 90% del territorio regionale e che,  guarda tu il caso, è anche  il territorio maggiormente industrializzato in regione e dunque bisognoso di importanti miglioramenti strutturali?
Che senso ha FAVORIRE solamente il 15% della popolazione regionale spendendo ben 1,8 miliardi di euro? Non sarebbe più logico "spalmare" questo finanziamento sull'intero territorio regionale e soprattutto sulla linea ferroviaria "Trieste - Gorizia - Udine - Pordenone - Treviso/Mestre"?
3) E' ben vero che nel 2016 si vota per il rinnovo del Consiglio comunale di Trieste, ma non pare anche a Lei Presidente Serracchiani, che sul piano dell'Economia dei trasporti è a Udine che si deve guardare e non a Trieste, città geograficamente marginale e posta in un angolo in basso a destra nella cartina geografica e a soli 6 chilometri dalla slovena Capodistria (che per inciso "nonglienepotrebbefregardimeno" di Trieste) e che mai permetterà che la linea ferroviaria ad alta velocità (italiana)  entri in territorio sloveno favorendo così "il  concorrente porto di Trieste"?

O forse si scrive
 "FRIULIVENEZIAGIULIA"

e si legge "TRIESTE"?


La Redazione del Blog 


giovedì 4 febbraio 2016

LA "VENEZIA GIULIA" E IL "FRIULI", E UN CARTELLO STRADALE DA RISCRIVERE

 

LA "VENEZIA GIULIA"
IL "FRIULI" 

E UNO CARTELLO STRADALE
DA RISCRIVERE!!!

Le fotografie pubblicate nel Post
sono state scattate da Roberta Michieli
al confine amministrativo tra la regione Veneto
e la regione "Friuli - Venezia Giulia" 
Comune di Sacile - sulla SS 13 del km 63,297
(Compartimento ANAS Trieste)
 
 

Di seguito i cartelli stradali che entrando in Comune di Sacile provenendo dalla regione Veneto, accolgono i turisti che entrano in Friuli.

Non pare anche a voi che ci sia "qualcosa" che non va?
 
 
 
FOTO NR. 1
 



FOTO NR. 2





FOTO NR. 3





FOTO NR. 4



 
 
POSTO CHE:
 
1) L'Ascoli ha "inventato" il nome "Venezia Giulia" e non il nome "Friuli Venezia", come magistralmente documentato nella ricerca storica a firma di Donato Toffoli "La Venezia Giulia: una questione friulana":


 http://comitat-friul.blogspot.it/2016/01/la-venezia-giulia-una-questione.html
 
 
2) Le parole "FRIULI" e "GIULIA" sono formate da un pari numero di lettere (sei!!!) e occupano sul cartello stradale un identico spazio tipografico;
 
 
3) Posto che all'art. 131 della Costituzione italiana troviamo scritto "Friuli - Venezia Giulia" e non "Friuli Venezia - Giulia" e che "comunque" la nostra regione è notoriamente formata da due realtà storiche e geografiche ben distinte, ossia il Friuli e Trieste;
  
 
CHIEDIAMO CHE:


 "AL PIU' PRESTO" il cartello stradale segnalato (e anche altri eventuali  pari "errati" cartelli stradali esistenti sulle strade regionali), venga modificato scrivendo correttamente "VENEZIA GIULIA" sulla seconda riga  e "FRIULI" (da solo!!!) nella prima riga,  ossia:
 
 
FRIULI
 
VENEZIA GIULIA
 
Non ci pare di chiedere la luna, ma solamente il rispetto della storia, della geografia e della realtà duale della nostra regione.  
 
 
La Redazione del Blog
 

 

domenica 31 gennaio 2016

"LA VENEZIA GIULIA: UNA QUESTIONE FRIULANA" di Donato TOFFOLI



RINGRAZIAMENTI E PRECISAZIONI

 
Il saggio a firma di Donato Toffoli è stato pubblicato sul libro "Venezia Giulia - La Regione Inventata" a cura di Roberta Michieli e Giuliano Zelco, casa editrice Kappa Vu, anno 2008, da pagina 64 a pagina 72 con il titolo "La Venezia Giulia: una questione friulana."

La Redazione del Blog ringrazia la dott.ssa Alessandra Kersevan (Casa editrice Kappa Vu) e l'autore del saggio dott. Donato Toffoli, per  averle  concesso  la  pubblicazione   di questa  importante ricerca storica che, assieme agli  altri  saggi  pubblicati  nel  libro,  contribuisce magistralmente  a  chiarire la storia dell'invenzione politica "Venezia Giulia" e i suoi legami con la "questione friulana".
 

LA REDAZIONE DEL BLOG



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LA VENEZIA GIULIA:

UNA QUESTIONE FRIULANA

di

Donato Toffoli
 

 
La denominazione di “Venezia Giulia”, come è risaputo, ha una precisa data di nascita: domenica 23 agosto 1863; in tale data compare infatti sulle pagine del giornale milanese “L’Alleanza” un articolo non firmato, fatto che riveste una certa importanza, intitolato “Le Venezie”, ripubblicato dopo poco, il 30 agosto 1863, sempre in forma anonima, sulla rivista illustrata, anche questa milanese, “Il Museo di famiglia”1.

E’ interessante soffermarci un attimo sui “contenitori” giornalistici che ospitano l’articolo: “L’Alleanza” che porta il sottotitolo di “Giornale politico-letterario internazionale”, diretto da Ignazio Helfy, è periodico di alto livello, militante e politicamente connotato in senso progressista, che funziona anche da elemento catalizzatore per numerosi esuli o emigrati dalle regioni dell’est, come Niccolò Tommaseo, Francesco Dall’Ongaro e Pacifico Valussi. Questo fatto spiega la grande attenzione per i problemi dell’Europa orientale in generale e in particolare per i destini di quella zona, sotto il “giogo” austriaco, che veniva sentita dai redattori come parte costitutiva di una futura Italia completamente libera e sovrana all’interno dei suoi confini “naturali”.

Più popolare e “di consumo” invece risulta “Il Museo di famiglia”, che mescola scienza, arte, letteratura e note politiche, ma che ha la caratteristica, oltre che quella di ospitare anch’esso interventi di Tommaseo e Dall’Ongaro, di avere come direttore l’ebreo triestino Emilio Treves. Come si vede la provenienza da zone austriache e la comune fede religiosa accomunano il direttore di tale periodico al friulano Graziadio Isaia Ascoli, un recente, ed ancora un po’ spaesato, immigrato a Milano.

Ascoli, nato nel 1829 a Gorizia, nella importante ed intellettualmente assai evoluta comunità ebraica locale, decide infatti, nel novembre del 1861, di trasferirsi a Milano, accettando la cattedra di “Grammatica comparata e lingue orientali” presso l’Accademia scientifico-letteraria. La sua presenza nella metropoli lombarda comporterà di fatto, se non la nascita, almeno un riallineamento delle scienze linguistiche italiane al livello delle migliori esperienze europee, come pure garantirà una posizione antipurista e rispettosa della pluralità linguistica nel dibattito sulla lingua adatta al neonato stato italiano; posizione di chiara impronta democratica e federalista.

È proprio lui l’anonimo autore di ”Le Venezie”, articolo inserito con modesto rilievo tipografico nei due periodici citati; e solo più di quindici anni dopo deciderà di proclamarsi autore dell’”articolino” in questione, ripubblicandolo in una miscellanea di scritti: “La stella dell’Esule”, pubblicato a Roma nel 1879 dalla Libreria Manzoni.

La riflessione ascoliana, si badi bene, si colloca a cavallo tra la rapida e per certi versi inaspettata proclamazione del Regno d’Italia (1861) e la fine della cosiddetta “Terza Guerra di Indipendenza” (1866), in realtà una collezione di disfatte da cui lo stato sabaudo fu preservato grazie all’alleanza con la vittoriosa Germania prussiana. Un momento di grande effervescenza, dove tutto sembra possibile ma che, nel giro di pochi mesi, vede cristallizzarsi una situazione geopolitica e un confine che dureranno per più di cinquant’anni, fino alla fine della prima guerra mondiale.

Nel momento in cui Ascoli scrive, tutte le “Venezie” sono soggette all’Austria, ma nel 1866 entra nello stato italiano quella che egli aveva chiamato “Venezia Propria”, che comprende anche il Friuli centrale ed occidentale; si deve precisare che l’espressione “Venezia Euganea” non è da attribuirsi in alcun modo al goriziano. Rimangono escluse dal Regno d’Italia, e lo rimarranno per molto tempo, la “Venezia Tridentina o Retica” e la “Venezia Giulia”, cioè come scrive: “le contrade dell’Italia settentrionale che sono al di là dei confini amministrativi della Venezia”, dove, si badi, i confini amministrativi sono, al momento della pubblicazione dell’articolo, quelli interni al dominio austriaco. Il problema dunque, scontata l’esistenza di una “Venezia”, è quello di dare un nome univoco alla “provincia che tra la Venezia Propria e le Alpi Giulie ed il mare rinserra Gorizia e Trieste e l’Istria” con capitale naturale “la splendida e ospitalissima Trieste”; tutto ciò non solo per questioni di comodità descrittiva ma poiché “In certe congiunture, i nomi sono più che parole. Sono bandiere alzate, sono simboli efficacissimi, onde le idee si avvalorano e si agevolano i fatti”.

  Non manca un riferimento a una categoria che, per la storia del termine “Venezia Giulia” è di importanza capitale, la “ambiguità preziosa”: “E nella denominazione comprensiva Le Venezie avremo un’appellativo che per ambiguità preziosa esprime in classica italianità la sola Venezia propria e, quindi potrebbe stare sin d’ora, cautamente ardito, sul labbro e sulla penna dei nostri diplomatici”. In realtà l’intera catena semantica che viene a prodursi poggia sull’ambiguità, creando o “immaginando una comunità” che ha un senso, sia sincronico che diacronico, flessibile ed adattabile a seconda delle circostanze: una potente mistura che è sostanzialmente falsa, ma verosimile, poiché evoca denominazioni storiche manipolandole e decontestualizzandole, ed ampliabile a piacere. Non solo la “Venezia Giulia” può essere considerata subordinata alla (e dunque coincidente con la) “Venezia Propria” e dunque all’Italia, ma raccoglie, e di questo Ascoli è interprete forse involontario, tutti i significati che i termini Venezia e Giulia si portano dietro, trasformati in mito fondatore: in particolare il mito della romanità e quello della venezianità.

  È ben vero che esiste une attestazione classica di un’unità amministrativa imperiale romana che contiene il termine Venezia: la X Regio Venetia et Histria, che fu molto vasta, dall’Adda ad una parte dell’Istria, ma, come è facile cogliere, non coincide con la partizione ascoliana e contiene il termine Istria, che non sembra opportuno richiamare secondo il suo stesso assunto. Esiste finanche una attestazione di Venetiae, al plurale, ma indica una suddivisione, tardo imperiale, fra una Venetia interna e una Venetia “maritima”. In quanto a Giulia vi è sicuramente la presenza di elementi toponimici di età classica che richiamano la gens Julia ma non sono in alcun modo caratteristica esclusiva di questa zona (vedi ad esempio Frejus in Provenza), ed anche la loro manifestazione più vistosa, le Alpes Juliae, non caratterizzano con la loro presenza tutta la “Venezia Giulia”. E, detto per inciso e dimostrando la totale inaffidabilità del concetto di “confine naturale”, con la loro presenza, a partire almeno dal Neolitico, non hanno mai diviso alcunchè.

  Il richiamo dunque è allo stesso tempo mitico ed ambiguo. Mitico perché il riferimento è al mito di Roma, di cui la nuova compagine statale viene vista come la “naturale” continuatrice, con tutti gli annessi e connessi attributi di superiore civiltà e conseguente funzione civilizzatrice; ed è al mito di Venezia, la Serenissima Repubblica, anch’essa progenitrice dell’Italia, che solcava potente i mari del Mediterraneo, patria di astuti mercanti e di generosi protettori di pittori, scultori e letterati: i leoni di San Marco appiccicati su piazze e monumenti della “Venezia Giulia”, ben dopo Campoformido (1797), sono una manifestazione evidente di tale mito.

  Ambiguo perché chi può dire dove termini con sicurezza l’influenza del mito “romano” e “veneziano”: il dominio romano non arrivava forse fino alla Dacia? Il patriziato veneziano non controllava forse Cattaro o Zante? Forse troppo, anche per un irredentista accanito. Tuttavia il messaggio offerto, interpretato da un nazionalismo meno moderato e sorvegliato di quello di Ascoli, e sancito dallo Stato, portava diritti ad una interpretazione estensiva ed imperialistica del termine “Venezia Giulia”, per una “più grande Italia”.

   L'”articolino” di Ascoli ha un’importanza relativa nella storia di quella che resta una grande figura di intellettuale, di livello europeo, in cui si nota un atteggiamento contraddittorio sulla questione del “confine orientale”, ma a volte molto duro con l’irredentismo, sentito persino come minaccia alle rivendicazioni di carattere culturale degli italiani d’Austria, da condurre in un quadro di rispetto delle istituzioni dello stato asburgico. Tuttavia è singolare e suggestivo sia perché coglie e sistematizza elementi culturali che probabilmente cominciavano a diventare senso comune sia perché offre un testo sintetico, aperto e suscettibile di ampliamenti e variazioni, al nazionalismo oltranzista italiano, in crescita esponenziale a partire dagli anni Ottanta dell’Ottocento.

   Prova della prima questione è la pubblicazione nel luglio 1866 de Il Confine orientale d’Italia scritto da Amato Amati che, in piena autonomia da Ascoli, posto di fronte al medesimo dilemma: come denominare in modo univoco la regione a nordest di Venezia scrive: “La denominazione più semplice, più opportuna, più conforme alle tradizioni, al linguaggio, al costume, ai bisogni economici e morali di questa regione delle Alpi Giulie, sia quella antica di Venezia: l’aggiunta di Orientale, Ulteriore, Giulia, come meglio piace, potrebbe all’uopo distinguere questa Venezia con capitale Trieste, dall’altra Venezia delle lagune”. Anche l’utilizzo strumentale e liberamente adattato in chiave irredentista dello scritto ascoliano sembrerebbe, anche se non ci sono conferme documentali, abbastanza rapido se dobbiamo credere alla lettera introduttiva di Ascoli al testo di Le Venezie comparso sulla "Stella dell’esule": “l’articolino” del 1863, scrive, “ (...) fu dipoi ricopiato e ristampato più volte, ma sempre in modo più o meno scorretto.

   Anche dopo l’attribuzione sicura del testo ad Ascoli, che del resto non usò neppure lui in maniera sistematica la propria terminologia, proseguì questa operazione; ma bisogna anche sottolineare che in nessuna occasione la denominazione di “Venezia Giulia” fu riconosciuta come la denominazione ufficiale e nemmeno negli stessi ambienti irredentisti venne a sostituire altre denominazioni in uso da anni. Fermo restando che l’unica definizione considerata deprecabile in ambito italiano fu “Litorale” nelle sue varie forme, l’ambiente irredentista pullula di Associazioni Trento e Trieste, di riviste come l’ ”Archivio Storico per Trieste, l’Istria ed il Trentino”, di articoli sulle Terre irredente, in cui “Venezia Giulia” non si usa, ma si snocciolano i termini di Goriziano, Trieste, Istria, Dalmazia e quant’altro.

   Un addensamento dell’uso di questo termine si nota con l’avvicinarsi al conflitto mondiale e con l’aumento della virulenza nazionalistica: così il volume L’Ora di Trieste2 di Giulio Caprin, del 1914, porta come sottotitolo La Venezia Giulia nella unità della storia italiana, così pure l’opera storico propagandistica di Attilio Tamaro, La Vénétie Julienne et la Dalmatie3, del 1918, stampata dal Senato del Regno in francese, internazionalizza la denominazione. Ma è solo il decreto del 3 novembre 1918 emanato dal Tenente Generale Carlo Petitti di Roreto in qualità di Governatore per la Venezia Giulia che fa entrare il termine dalla preistoria nella storia e, moltiplicato in un numero innumerevole di atti e comunicazioni, farà diventare il termine normale, tanto da farlo accettare, ben oltre la dittatura fascista, nell’ordinamento giuridico della Repubblica “nata dalla Resistenza”, nonostante la sua indubbia potenzialità nazionalista ed irredentista.

   In tutta questa vicenda emerge con chiarezza l’assenza, o meglio l’eclissi del termine Friuli, che tuttalpiù compare nel repertorio di voci che devono essere cancellate e sostituite, come Istria o Goriziano. Tutto ciò è perfettamente in linea con l’assunto generale: Venezia Giulia è un termine che deve avere un impatto decisivo nello scenario internazionale per rendere più incisive le rivendicazioni dello stato italiano e per fare questo deve compattare le diverse identità presenti sul territorio. Sfortuna vuole che il Friuli centrale ed occidentale, in questo schema, ricada per una parte sotto la “Venezia Propria” e quello orientale sotto la “Venezia Giulia”, ma questo sempre negli interessi “superiori” della “nazione”.

   Sorprende, ma fino ad un certo punto, che l’autore di questa formula sia un friulano, Graziadio Isaia Ascoli, e che sia lo stesso intellettuale che con la pubblicazione dei Saggi Ladini4, nel 1873, fornirà, per lo meno in ambito italiano, la dimostrazione dell’individualità linguistica della lingua friulana: cosa che, fra l’altro, sarà motivo di imbarazzo nell’ambiente irredentista italiano che lo interpreterà come un cedimento alla Kultur pangermanista. Certo è che nella non abbondante produzione storiografica di matrice “autonomistica” friulana la invenzione ascoliana (proprio dell’Ascoli a cui è intitolata la Società Filologica Friulana) della “Venezia Giulia”, viene passata sotto silenzio oppure in taluni casi viene aspramente criticata.

   Fra i maggiori e più radicali critici della “Venezia Giulia” ascoliana, troviamo chi oppone al grande goriziano gli scritti di due autori friulani che invece pongono al centro della loro riflessione storico-politica il Friuli e non la “Venezia Giulia”. Per esempio il Di Caporiacco5 esalta l’opera di Prospero Antonini che, pur appartenendo all’ambiente dei fuoriusciti milanesi a cui apparteneva lo stesso Ascoli, nella sua opera del 1865 Il Friuli Orientale6, non fa il minimo accenno alla Venezia Giulia e così descrive il Friuli: “Il Friuli naturale, dedotto il distretto di Portogruaro, ora compreso nella Provincia di Venezia, abbraccia nella sua totalità la provincia di Udine propriamente detta, e la Contea di Gorizia quasi per intero, ed eccettuati i territori carsici di Duino, Comeno, Sesana che, posti al di là del Timavo, geograficamente spettano alla penisola istriana”. Non sfugge allo spirito più acuto di Giuseppe Marchetti che l’Antonini, in questo volume e nel successivo, Del Friuli ed in particolare dei trattati da cui ebbe origine la dualità politica della regione7, edito nel 1873, dietro a tanta esattezza da agrimensore quando si tratti di definire dove sia il Friuli, esprima riguardo al suo ruolo un punto di vista che è alla base ”di tutta la letteratura irredentistica posteriore ed il modello tuttora vigente per l’interpretazione nazionalisticamente ortodossa della storia locale”, un nazionalismo che giunge al punto di “fargli proporre che nelle carte geografiche i nomi friulani siano ridotti in forma italiana ed a fargli scrivere ad esempio, Cormonsio, Cordenonsio”8.

   Sempre in ambiente milanese troviamo un’altra e forse ancor più influente figura di intellettuale: Pacifico Valussi, autore, sempre nel fatidico 1865, di un opera Il Friuli9, fra l’altro dedicato al direttore di “L’Alleanza”, Ignazio Helfy. Valussi è l’autore del concetto di Friuli come “regione naturale” e in questo senso è assai considerato da alcuni “autonomisti” friulani. L’opera è molto particolareggiata nell’enumerare le caratteristiche specifiche del Friuli, tra cui la lingua: “dopo il sardo, il dialetto friulano è tra gli italiani quello che più si avvicina al latino, per una parte, al provenzale ed al catalano per un’altra” ed “il dialetto friulano a Gorizia è generalmente più parlato che non nella stessa Udine, dove il veneto prevale sempre più” ma è allo stesso modo molto prudente su questi aspetti, sapendo che ”gli statistici e gli etnologi austriaci, collo scopo di separare nell’Impero Italiani da Italiani, come fecero altrove dei Polacchi e dei Ruteni, degli Czechi e degli Slovacchi, dei Croati, dei Serbi e dei Dalmati, vollero fare dei Friulani una nazionalità a parte”.

   Allora la specificità del Friuli si fonda sull’antica consuetudine ad essere come “Aquileja, baluardo dell’Impero Romano” e “Palma, baluardo della Repubblica di Venezia” (il mito romano e veneziano di cui si parlava sopra) e sull’auspicio di riuscire a diventare il futuro “baluardo della nazione italiana”. Così “Il Friuli andrà superbo di ciò, non come di un merito proprio, ma per la coscienza di un debito suo, chè essendo paese di confine, gl’incombe di difendere l’Italia non soltanto coi petti de’suoi cittadini, ma anche colla civiltà, destinata ad espandersi ed a guadagnar nuovamente terreno sui paesi vicini. Sarà una grande difesa della nazione italiana il poter mostrare ai confini suoi una civiltà diffusiva, la quale è atta a vincere quella dei tedeschi e degli Slavi, che da quella parte non seppero finora opporci che la forza materiale, e dovettero dinanzi a lei indietreggiare sul suolo invaso”. Insomma, per essere chiari : “O giovani Friulani, ricordatevi, che voi siete le guardie di confine della italiana civiltà”.

   Tale visione, che pur considera centrale il Friuli, appare sotto tutti i punti di vista non alternativa a quella veneto-giuliana, ma concorrente nell’affermare una visione nazionalista italiana per nulla moderata, ma aggressiva ed espansionista.

   E che sia profondamente radicata nell’immaginario politico culturale friulano lo dimostrano diversi scritti: ad esempio, molti anni dopo, precisamente nel 1922, viene pubblicato un’opuscolo: La funzione storica del Friuli10; questo risulta essere in realtà la trascrizione di una conferenza tenuta in Castello a Udine, agli ufficiali del comando Supremo, il 18 gennaio 1917, in piena guerra mondiale, da Bindo Chiurlo, fondatore della Società Filologica ed intellettuale solitamente molto misurato. Passando in rassegna la storia del Friuli, caratterizzata da unità “geografica” e di “stirpe”, con la sua “parlata romanza”, si afferma: “se, nelle guerre contro i barbari, per la sua piccolezza, la gente del Friuli dovette spesso accontentarsi di dar man forte e di offrire soltanto l’arma più vicina a ferire; se una parte di esso, il Friuli orientale, fu, da un insieme di cause, costretta a seguire i destini di casa d’Austria, il Friuli, all’infuori e al di sopra delle vicende politiche e militari, non venne mai meno alla sua funzione etnica di resistenza latina.”, “Poiché tutta la storia friulana si rifà senza coartazioni, nelle sue linee generali, sullo schema della “porta d’Italia”, e della sua istintiva resistenza contro germanesimo e slavismo”. Netta è la conclusione che ne deriva, quasi la definizione di un programma: “Né la funzione che la Natura ha assegnato al Friuli è finita, ma par oggi coronarsi della sua più fulgida pagina; e come da un lato la porta patente, dal Vipacco a Monfalcone, ha ricondotto gli eserciti d’Italia all’ultima lotta contro lo straniero, così domani si profila per la gente friulana l’ultimo compito: la assimilazione non violenta, ma per forza di carattere, dell’elemento slavo, che entrerà in misura larghissima a far parte della terra friulana. Poiché io non vi nascondo che credo destinata questa regione a restare una, compatta, essa stessa; perché il calmo ma tenace, il duro ma civile, il latino ma non chiuso a certe comprensioni dell’anima germanica e slava, carattere friulano è senza dubbio il più indicato a quest’opera di assimilazione pacifica. E il Friuli si ricomporrà in una sola unità regionale e religiosa. Deve risorgere, all’ombra materna di Roma, la “patria del Friuli” e il “patriarcato d’Aquileia”, onde sia forte, unita, compatta questa terra limitanea, questa rinnovellata marca d’Italia. Tale la nuova missione della terra friulana verso il nord e verso il nord-est, accanto a quella che avrà Trieste verso oriente”. Impressionante appare la richiesta di apertura di credito, con la guerra ancora in corso, ed anzi con Caporetto incombente, ad aspirazioni fortemente autonomistiche come la ricostituzione della Patria del Friuli e del Patriarcato di Aquileia, che trovano in ogni caso la loro contropartita in una funzione dei Friulani come “specialisti in assimilazione”.

   Ma che non sia una boutade, o una idea non condivisa da settori importanti dell’opinione pubblica, è dimostrato da uno dei primissimi documenti politici redatti in Friuli dopo la fine della guerra, presumibilmente il 7 di settembre del 191911 e che riecheggia nella sostanza gli stessi temi. Al Teatro Cecchini di Udine, infatti, si riunisce l’assemblea della sezione udinese della Associazione Nazionale Combattenti; la riduzione dei combattenti ad una organizzazione esclusivamente sciovinistica non appare corretto e, per esempio, appaiono suggestivi i possibili confronti tra il combattentismo sardo, con la significativa presenza tra i suoi leaders di Emilio Lussu, che è regionalista e da cui nascerà il Partito Sardo d’Azione e quello friulano. Tuttavia quest’ultimo appare segnato irrimediabilmente dalla presenza della questione del “confine orientale” che lo induce ad assumere una posizione di forte nazionalismo, con la presenza correlata però, come nel discorso di Chiurlo, di una forte tensione autonomistica; infatti l’Assemblea, “ritenuta l’unità geografica ed etnica della regione friulana e le identità d’interessi economici della provincia di Udine e del Friuli orientale, (…) fa voti perché l’unione di tutto il Friuli in un solo collegio elettorale venga deliberata dai competenti poteri dello Stato e sia preludio di un pieno riconoscimento dell’unità regionale del Friuli”.

   Il momento più alto di questa visione, autonomista ed antislava per essere sintetici, sostenuta da vari settori politici - un nome per tutti: Girardini - verrà raggiunto nel momento dell’effimera (1923– 1927) unificazione delle provincie di Udine e Gorizia nella Provincia del Friuli, con la chiara intenzione di diluire i voti sloveni (e, en passant, comunisti). Una volta creato lo stato totalitario, non si pone più nessun problema elettorale e lo strumento “Provincia del Friuli”, con buona pace degli ambienti “friulanisti”, perde qualsiasi importanza.

   A questo punto potremmo porci motivatamente una domanda: come mai allora in presenza di tale importante visione concorrente, il termine di “Venezia Giulia” riuscì non solo a sopravvivere e perpetuarsi, ma ad imporsi, tanto da far considerare al giorno d’oggi il concetto di Friuli orientale, assolutamente pacifico all’inizio del Novecento, come una forzatura?

   Le risposte devono essere formulate con grande prudenza e considerando diversi fattori. Una prima considerazione da farsi è che la sanzione istituzionale del termine “Venezia Giulia” come corretto, comporta un grande vantaggio: in questo caso è lo Stato, con i suoi strumenti di controllo e formazione del consenso, a creare un’identità o pseudoidentità collettiva. Inoltre il tipo di “autonomismo” friulano sopra ricordato, quello sintetizzato nella formula della “grande e piccola patria”, si giustifica, e lo abbiamo visto chiaramente, come parte di un progetto più vasto e nobile, o presunto tale: il progetto di costruzione, sviluppo, difesa della Nazione italiana, con la enne maiuscola. Questo comporta, in spiriti più portati ad ascoltare il richiamo agli “interessi superiori”, un riallineamento agli indirizzi prevalenti, e se questi comportano una rinuncia alle istanze autonomistiche, pazienza.

   In terzo luogo mentre la denominazione di Friuli, per quanto la si possa estendere e riferire a luoghi diversi, ha sempre dei limiti che sono dovuti ad un suo uso storico prolungato nei secoli, non è così per il termine “Venezia Giulia” che, essendo di fresca invenzione e dotato di “ambiguità preziosa”, può invece essere esteso a piacimento; un suo limite diventa così paradossalmente una sua forza.

   In quarto luogo, ed è elemento di grande interesse: se si applica al Friuli, e ai suoi tratti specifici, un’analisi in termini diacronici e sincronici, senza volerlo inserire a forza nel contesto e nel disegno provvidenziale della “nazione“ italiana, se cioè si segue la via di un autonomismo non secondario e derivato, si rischia di ottenere una interpretazione autonoma e non subalterna di esso; realmente e radicalmente alternativa al modello sciovinista contrassegnato dal termine “Venezia Giulia”.

   E questa è forse la peggiore “disgrazia” per chi abbia una visione del Friuli che si propone di affermare interessi che al Friuli sono estranei o avversi, con una classe dirigente subalterna o peggio eterodiretta, la quale sostiene di voler valorizzare il territorio e le sue specificità, ma a cui in realtà interessa esclusivamente la propria autoperpetuazione.

   Questo rischio e questa “disgrazia” si materializzano, subito dopo la fine della prima guerra mondiale, nelle posizioni di un intellettuale friulano, Achille Tellini, che dall’analisi della specificità del Friuli ricava una lezione opposta a quella dell’”autonomismo” sopra ricordato.

   Nelle riviste "Tesaur de Lenge Furlane" e "Patrje Ladine", scritte integralmente in friulano, con riassunto in esperanto, proporrà una visione dei Friulani, parte costitutiva della Ladinia, come nazione che deve unificarsi, dotarsi di istituzioni comuni, con una funzione storica praticamente contraria a quella sopra ricordata: costituire un’oasi di pace al centro dell’Europa, separando gli opposti imperialismi; disponibile addirittura “se la volontà unanime dei ladini non sarà sufficiente a fare riconoscere dal governo la nostra lingua” ad “unirsi con i 467.000 sloveni e croati che saranno sotto la bandiera d’Italia” oltre che con sardi, tedeschi, albanesi, francesi, ebrei, catalani e romeni ; se ciò non è sufficiente, disponibile a “promuovere la federazione di tutte le minoranze etniche di ogni stato della terra”12.

Si può ritenere con ragionevole certezza che questa sia la radice autentica del moderno autonomismo friulano, quanto di più lontano si possa immaginare da un “autonomismo secondario” al servizio del nazionalismo italiano e allo stesso tempo lontanissimo dagli incubi novecenteschi, neutralizzati ma, in modo latente, ancora presenti nel termine “Venezia Giulia”.

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NOTE  ESPLICATIVE
 
1 Tra la cospicua bibliografia, densa di riferimenti e citazioni, sintetizzando al massimo ricordo: E. Sestan Venezia Giulia : lineamenti di una storia etnica e culturale e il contesto storico-politico in cui si colloca l'opera, Udine, Del Bianco, 1997 ; nel volume, autentica miniera di informazioni: Le Identità delle Venezie (1866-1918). Confini storici, culturali, linguistici, Atti del Convegno internazionale di studi (Venezia, 8-10 febbraio 2001), a cura di T. Agostini, Roma-Padova, Antenore, 2002 soprattutto i contributi di A. Brambilla L’identità delle Venezie nel pensiero di G.I. Ascoli, pp. 77-97; A. Stussi Nazionalismo e irredentismo degli intellettuali nelle Tre Venezie, pp. 3-32 ; S. Adamo L’identità delle Venezie tra guide, memorie e libri di viaggio, pp. 135-163 ; F. Salimbeni Il mito di Venezia nella cultura giuliana tra Otto e Novecento, pp. 33-40. Sempre di A. Brambilla G.A. Ascoli e la Venezia Giulia. Nuovi appunti sulla fortuna di una definizione in Studi Goriziani 97/98, 2003 pp. 119-128 e Appunti su Graziadio Isaia Ascoli. Materiali per la storia di un intellettuale, Gorizia, Istituto giuliano di storia, cultura e documentazione, 1996; di F. Salimbeni G.I. Ascoli e la Venezia Giulia in Quaderni giuliani di storia, I, 1980, fasc.I, pp.51-68 e La Venezia Giulia e le Tre Venezie tra diversità e convergenze in Studi Goriziani, 82, 1990 pp.49-64.

2 G. Caprin L’ora di Trieste, Firenze, A. Beltrami, 1914.

3 A. Tamaro La Vénétie Julienne, Rome, Imprimerie du Sénat, 1918 la quale costituisce la prima parte di un opera in tre volumi: La Vénétie Julienne et la Dalmatie : histoire de la nation italienne sur ses frontières orientales.

4 G. I. Ascoli, Saggi ladini, in Archivio Glottologico Italiano, I, 1873 

5 G. di Caporiacco, Venezia Giulia: la regione inesistente, Reana del Rojale, Chiandetti, 1978.

6 P. Antonini Il Friuli orientale: studi, Milano, F. Vallardi, 1865. La citazione si trova a p. 534.

7 P. Antonini Del Friuli ed in particolare dei trattati da cui ebbe origine la dualità politica in questa regione : note storiche, Venezia, P. Naratovich, 1873

8 G. Marchetti, Il Friuli uomini e tempi, Udine, Del Bianco, 1974 (2.ed.). La citazione si trova a p.683.

9 P. Valussi Il Friuli: studi e reminiscenze, Milano, Tip. Internazionale, 1865. Le citazioni si trovano, nell’ordine alle p. 250, 19, 15, 76, 166.

10 B. Chiurlo La funzione storica del Friuli, Udine, Libreria Carducci, 1922. Le citazioni sono alle p. 12, 15, 23.

11 L’assemblea dei combattenti. La loro azione nelle prossime elezioni in Patria del Friuli, 8 settembre 1919, p.2

12 A. Tellini Apelo ai Ladíns in Il tesaur de lenge furlane, la citazione tradotta si trova a p. 387

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