domenica 31 gennaio 2016

"LA VENEZIA GIULIA: UNA QUESTIONE FRIULANA" di Donato TOFFOLI



RINGRAZIAMENTI E PRECISAZIONI

 
Il saggio a firma di Donato Toffoli è stato pubblicato sul libro "Venezia Giulia - La Regione Inventata" a cura di Roberta Michieli e Giuliano Zelco, casa editrice Kappa Vu, anno 2008, da pagina 64 a pagina 72 con il titolo "La Venezia Giulia: una questione friulana."

La Redazione del Blog ringrazia la dott.ssa Alessandra Kersevan (Casa editrice Kappa Vu) e l'autore del saggio dott. Donato Toffoli, per  averle  concesso  la  pubblicazione   di questa  importante ricerca storica che, assieme agli  altri  saggi  pubblicati  nel  libro,  contribuisce magistralmente  a  chiarire la storia dell'invenzione politica "Venezia Giulia" e i suoi legami con la "questione friulana".
 

LA REDAZIONE DEL BLOG



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LA VENEZIA GIULIA:

UNA QUESTIONE FRIULANA

di

Donato Toffoli
 

 
La denominazione di “Venezia Giulia”, come è risaputo, ha una precisa data di nascita: domenica 23 agosto 1863; in tale data compare infatti sulle pagine del giornale milanese “L’Alleanza” un articolo non firmato, fatto che riveste una certa importanza, intitolato “Le Venezie”, ripubblicato dopo poco, il 30 agosto 1863, sempre in forma anonima, sulla rivista illustrata, anche questa milanese, “Il Museo di famiglia”1.

E’ interessante soffermarci un attimo sui “contenitori” giornalistici che ospitano l’articolo: “L’Alleanza” che porta il sottotitolo di “Giornale politico-letterario internazionale”, diretto da Ignazio Helfy, è periodico di alto livello, militante e politicamente connotato in senso progressista, che funziona anche da elemento catalizzatore per numerosi esuli o emigrati dalle regioni dell’est, come Niccolò Tommaseo, Francesco Dall’Ongaro e Pacifico Valussi. Questo fatto spiega la grande attenzione per i problemi dell’Europa orientale in generale e in particolare per i destini di quella zona, sotto il “giogo” austriaco, che veniva sentita dai redattori come parte costitutiva di una futura Italia completamente libera e sovrana all’interno dei suoi confini “naturali”.

Più popolare e “di consumo” invece risulta “Il Museo di famiglia”, che mescola scienza, arte, letteratura e note politiche, ma che ha la caratteristica, oltre che quella di ospitare anch’esso interventi di Tommaseo e Dall’Ongaro, di avere come direttore l’ebreo triestino Emilio Treves. Come si vede la provenienza da zone austriache e la comune fede religiosa accomunano il direttore di tale periodico al friulano Graziadio Isaia Ascoli, un recente, ed ancora un po’ spaesato, immigrato a Milano.

Ascoli, nato nel 1829 a Gorizia, nella importante ed intellettualmente assai evoluta comunità ebraica locale, decide infatti, nel novembre del 1861, di trasferirsi a Milano, accettando la cattedra di “Grammatica comparata e lingue orientali” presso l’Accademia scientifico-letteraria. La sua presenza nella metropoli lombarda comporterà di fatto, se non la nascita, almeno un riallineamento delle scienze linguistiche italiane al livello delle migliori esperienze europee, come pure garantirà una posizione antipurista e rispettosa della pluralità linguistica nel dibattito sulla lingua adatta al neonato stato italiano; posizione di chiara impronta democratica e federalista.

È proprio lui l’anonimo autore di ”Le Venezie”, articolo inserito con modesto rilievo tipografico nei due periodici citati; e solo più di quindici anni dopo deciderà di proclamarsi autore dell’”articolino” in questione, ripubblicandolo in una miscellanea di scritti: “La stella dell’Esule”, pubblicato a Roma nel 1879 dalla Libreria Manzoni.

La riflessione ascoliana, si badi bene, si colloca a cavallo tra la rapida e per certi versi inaspettata proclamazione del Regno d’Italia (1861) e la fine della cosiddetta “Terza Guerra di Indipendenza” (1866), in realtà una collezione di disfatte da cui lo stato sabaudo fu preservato grazie all’alleanza con la vittoriosa Germania prussiana. Un momento di grande effervescenza, dove tutto sembra possibile ma che, nel giro di pochi mesi, vede cristallizzarsi una situazione geopolitica e un confine che dureranno per più di cinquant’anni, fino alla fine della prima guerra mondiale.

Nel momento in cui Ascoli scrive, tutte le “Venezie” sono soggette all’Austria, ma nel 1866 entra nello stato italiano quella che egli aveva chiamato “Venezia Propria”, che comprende anche il Friuli centrale ed occidentale; si deve precisare che l’espressione “Venezia Euganea” non è da attribuirsi in alcun modo al goriziano. Rimangono escluse dal Regno d’Italia, e lo rimarranno per molto tempo, la “Venezia Tridentina o Retica” e la “Venezia Giulia”, cioè come scrive: “le contrade dell’Italia settentrionale che sono al di là dei confini amministrativi della Venezia”, dove, si badi, i confini amministrativi sono, al momento della pubblicazione dell’articolo, quelli interni al dominio austriaco. Il problema dunque, scontata l’esistenza di una “Venezia”, è quello di dare un nome univoco alla “provincia che tra la Venezia Propria e le Alpi Giulie ed il mare rinserra Gorizia e Trieste e l’Istria” con capitale naturale “la splendida e ospitalissima Trieste”; tutto ciò non solo per questioni di comodità descrittiva ma poiché “In certe congiunture, i nomi sono più che parole. Sono bandiere alzate, sono simboli efficacissimi, onde le idee si avvalorano e si agevolano i fatti”.

  Non manca un riferimento a una categoria che, per la storia del termine “Venezia Giulia” è di importanza capitale, la “ambiguità preziosa”: “E nella denominazione comprensiva Le Venezie avremo un’appellativo che per ambiguità preziosa esprime in classica italianità la sola Venezia propria e, quindi potrebbe stare sin d’ora, cautamente ardito, sul labbro e sulla penna dei nostri diplomatici”. In realtà l’intera catena semantica che viene a prodursi poggia sull’ambiguità, creando o “immaginando una comunità” che ha un senso, sia sincronico che diacronico, flessibile ed adattabile a seconda delle circostanze: una potente mistura che è sostanzialmente falsa, ma verosimile, poiché evoca denominazioni storiche manipolandole e decontestualizzandole, ed ampliabile a piacere. Non solo la “Venezia Giulia” può essere considerata subordinata alla (e dunque coincidente con la) “Venezia Propria” e dunque all’Italia, ma raccoglie, e di questo Ascoli è interprete forse involontario, tutti i significati che i termini Venezia e Giulia si portano dietro, trasformati in mito fondatore: in particolare il mito della romanità e quello della venezianità.

  È ben vero che esiste une attestazione classica di un’unità amministrativa imperiale romana che contiene il termine Venezia: la X Regio Venetia et Histria, che fu molto vasta, dall’Adda ad una parte dell’Istria, ma, come è facile cogliere, non coincide con la partizione ascoliana e contiene il termine Istria, che non sembra opportuno richiamare secondo il suo stesso assunto. Esiste finanche una attestazione di Venetiae, al plurale, ma indica una suddivisione, tardo imperiale, fra una Venetia interna e una Venetia “maritima”. In quanto a Giulia vi è sicuramente la presenza di elementi toponimici di età classica che richiamano la gens Julia ma non sono in alcun modo caratteristica esclusiva di questa zona (vedi ad esempio Frejus in Provenza), ed anche la loro manifestazione più vistosa, le Alpes Juliae, non caratterizzano con la loro presenza tutta la “Venezia Giulia”. E, detto per inciso e dimostrando la totale inaffidabilità del concetto di “confine naturale”, con la loro presenza, a partire almeno dal Neolitico, non hanno mai diviso alcunchè.

  Il richiamo dunque è allo stesso tempo mitico ed ambiguo. Mitico perché il riferimento è al mito di Roma, di cui la nuova compagine statale viene vista come la “naturale” continuatrice, con tutti gli annessi e connessi attributi di superiore civiltà e conseguente funzione civilizzatrice; ed è al mito di Venezia, la Serenissima Repubblica, anch’essa progenitrice dell’Italia, che solcava potente i mari del Mediterraneo, patria di astuti mercanti e di generosi protettori di pittori, scultori e letterati: i leoni di San Marco appiccicati su piazze e monumenti della “Venezia Giulia”, ben dopo Campoformido (1797), sono una manifestazione evidente di tale mito.

  Ambiguo perché chi può dire dove termini con sicurezza l’influenza del mito “romano” e “veneziano”: il dominio romano non arrivava forse fino alla Dacia? Il patriziato veneziano non controllava forse Cattaro o Zante? Forse troppo, anche per un irredentista accanito. Tuttavia il messaggio offerto, interpretato da un nazionalismo meno moderato e sorvegliato di quello di Ascoli, e sancito dallo Stato, portava diritti ad una interpretazione estensiva ed imperialistica del termine “Venezia Giulia”, per una “più grande Italia”.

   L'”articolino” di Ascoli ha un’importanza relativa nella storia di quella che resta una grande figura di intellettuale, di livello europeo, in cui si nota un atteggiamento contraddittorio sulla questione del “confine orientale”, ma a volte molto duro con l’irredentismo, sentito persino come minaccia alle rivendicazioni di carattere culturale degli italiani d’Austria, da condurre in un quadro di rispetto delle istituzioni dello stato asburgico. Tuttavia è singolare e suggestivo sia perché coglie e sistematizza elementi culturali che probabilmente cominciavano a diventare senso comune sia perché offre un testo sintetico, aperto e suscettibile di ampliamenti e variazioni, al nazionalismo oltranzista italiano, in crescita esponenziale a partire dagli anni Ottanta dell’Ottocento.

   Prova della prima questione è la pubblicazione nel luglio 1866 de Il Confine orientale d’Italia scritto da Amato Amati che, in piena autonomia da Ascoli, posto di fronte al medesimo dilemma: come denominare in modo univoco la regione a nordest di Venezia scrive: “La denominazione più semplice, più opportuna, più conforme alle tradizioni, al linguaggio, al costume, ai bisogni economici e morali di questa regione delle Alpi Giulie, sia quella antica di Venezia: l’aggiunta di Orientale, Ulteriore, Giulia, come meglio piace, potrebbe all’uopo distinguere questa Venezia con capitale Trieste, dall’altra Venezia delle lagune”. Anche l’utilizzo strumentale e liberamente adattato in chiave irredentista dello scritto ascoliano sembrerebbe, anche se non ci sono conferme documentali, abbastanza rapido se dobbiamo credere alla lettera introduttiva di Ascoli al testo di Le Venezie comparso sulla "Stella dell’esule": “l’articolino” del 1863, scrive, “ (...) fu dipoi ricopiato e ristampato più volte, ma sempre in modo più o meno scorretto.

   Anche dopo l’attribuzione sicura del testo ad Ascoli, che del resto non usò neppure lui in maniera sistematica la propria terminologia, proseguì questa operazione; ma bisogna anche sottolineare che in nessuna occasione la denominazione di “Venezia Giulia” fu riconosciuta come la denominazione ufficiale e nemmeno negli stessi ambienti irredentisti venne a sostituire altre denominazioni in uso da anni. Fermo restando che l’unica definizione considerata deprecabile in ambito italiano fu “Litorale” nelle sue varie forme, l’ambiente irredentista pullula di Associazioni Trento e Trieste, di riviste come l’ ”Archivio Storico per Trieste, l’Istria ed il Trentino”, di articoli sulle Terre irredente, in cui “Venezia Giulia” non si usa, ma si snocciolano i termini di Goriziano, Trieste, Istria, Dalmazia e quant’altro.

   Un addensamento dell’uso di questo termine si nota con l’avvicinarsi al conflitto mondiale e con l’aumento della virulenza nazionalistica: così il volume L’Ora di Trieste2 di Giulio Caprin, del 1914, porta come sottotitolo La Venezia Giulia nella unità della storia italiana, così pure l’opera storico propagandistica di Attilio Tamaro, La Vénétie Julienne et la Dalmatie3, del 1918, stampata dal Senato del Regno in francese, internazionalizza la denominazione. Ma è solo il decreto del 3 novembre 1918 emanato dal Tenente Generale Carlo Petitti di Roreto in qualità di Governatore per la Venezia Giulia che fa entrare il termine dalla preistoria nella storia e, moltiplicato in un numero innumerevole di atti e comunicazioni, farà diventare il termine normale, tanto da farlo accettare, ben oltre la dittatura fascista, nell’ordinamento giuridico della Repubblica “nata dalla Resistenza”, nonostante la sua indubbia potenzialità nazionalista ed irredentista.

   In tutta questa vicenda emerge con chiarezza l’assenza, o meglio l’eclissi del termine Friuli, che tuttalpiù compare nel repertorio di voci che devono essere cancellate e sostituite, come Istria o Goriziano. Tutto ciò è perfettamente in linea con l’assunto generale: Venezia Giulia è un termine che deve avere un impatto decisivo nello scenario internazionale per rendere più incisive le rivendicazioni dello stato italiano e per fare questo deve compattare le diverse identità presenti sul territorio. Sfortuna vuole che il Friuli centrale ed occidentale, in questo schema, ricada per una parte sotto la “Venezia Propria” e quello orientale sotto la “Venezia Giulia”, ma questo sempre negli interessi “superiori” della “nazione”.

   Sorprende, ma fino ad un certo punto, che l’autore di questa formula sia un friulano, Graziadio Isaia Ascoli, e che sia lo stesso intellettuale che con la pubblicazione dei Saggi Ladini4, nel 1873, fornirà, per lo meno in ambito italiano, la dimostrazione dell’individualità linguistica della lingua friulana: cosa che, fra l’altro, sarà motivo di imbarazzo nell’ambiente irredentista italiano che lo interpreterà come un cedimento alla Kultur pangermanista. Certo è che nella non abbondante produzione storiografica di matrice “autonomistica” friulana la invenzione ascoliana (proprio dell’Ascoli a cui è intitolata la Società Filologica Friulana) della “Venezia Giulia”, viene passata sotto silenzio oppure in taluni casi viene aspramente criticata.

   Fra i maggiori e più radicali critici della “Venezia Giulia” ascoliana, troviamo chi oppone al grande goriziano gli scritti di due autori friulani che invece pongono al centro della loro riflessione storico-politica il Friuli e non la “Venezia Giulia”. Per esempio il Di Caporiacco5 esalta l’opera di Prospero Antonini che, pur appartenendo all’ambiente dei fuoriusciti milanesi a cui apparteneva lo stesso Ascoli, nella sua opera del 1865 Il Friuli Orientale6, non fa il minimo accenno alla Venezia Giulia e così descrive il Friuli: “Il Friuli naturale, dedotto il distretto di Portogruaro, ora compreso nella Provincia di Venezia, abbraccia nella sua totalità la provincia di Udine propriamente detta, e la Contea di Gorizia quasi per intero, ed eccettuati i territori carsici di Duino, Comeno, Sesana che, posti al di là del Timavo, geograficamente spettano alla penisola istriana”. Non sfugge allo spirito più acuto di Giuseppe Marchetti che l’Antonini, in questo volume e nel successivo, Del Friuli ed in particolare dei trattati da cui ebbe origine la dualità politica della regione7, edito nel 1873, dietro a tanta esattezza da agrimensore quando si tratti di definire dove sia il Friuli, esprima riguardo al suo ruolo un punto di vista che è alla base ”di tutta la letteratura irredentistica posteriore ed il modello tuttora vigente per l’interpretazione nazionalisticamente ortodossa della storia locale”, un nazionalismo che giunge al punto di “fargli proporre che nelle carte geografiche i nomi friulani siano ridotti in forma italiana ed a fargli scrivere ad esempio, Cormonsio, Cordenonsio”8.

   Sempre in ambiente milanese troviamo un’altra e forse ancor più influente figura di intellettuale: Pacifico Valussi, autore, sempre nel fatidico 1865, di un opera Il Friuli9, fra l’altro dedicato al direttore di “L’Alleanza”, Ignazio Helfy. Valussi è l’autore del concetto di Friuli come “regione naturale” e in questo senso è assai considerato da alcuni “autonomisti” friulani. L’opera è molto particolareggiata nell’enumerare le caratteristiche specifiche del Friuli, tra cui la lingua: “dopo il sardo, il dialetto friulano è tra gli italiani quello che più si avvicina al latino, per una parte, al provenzale ed al catalano per un’altra” ed “il dialetto friulano a Gorizia è generalmente più parlato che non nella stessa Udine, dove il veneto prevale sempre più” ma è allo stesso modo molto prudente su questi aspetti, sapendo che ”gli statistici e gli etnologi austriaci, collo scopo di separare nell’Impero Italiani da Italiani, come fecero altrove dei Polacchi e dei Ruteni, degli Czechi e degli Slovacchi, dei Croati, dei Serbi e dei Dalmati, vollero fare dei Friulani una nazionalità a parte”.

   Allora la specificità del Friuli si fonda sull’antica consuetudine ad essere come “Aquileja, baluardo dell’Impero Romano” e “Palma, baluardo della Repubblica di Venezia” (il mito romano e veneziano di cui si parlava sopra) e sull’auspicio di riuscire a diventare il futuro “baluardo della nazione italiana”. Così “Il Friuli andrà superbo di ciò, non come di un merito proprio, ma per la coscienza di un debito suo, chè essendo paese di confine, gl’incombe di difendere l’Italia non soltanto coi petti de’suoi cittadini, ma anche colla civiltà, destinata ad espandersi ed a guadagnar nuovamente terreno sui paesi vicini. Sarà una grande difesa della nazione italiana il poter mostrare ai confini suoi una civiltà diffusiva, la quale è atta a vincere quella dei tedeschi e degli Slavi, che da quella parte non seppero finora opporci che la forza materiale, e dovettero dinanzi a lei indietreggiare sul suolo invaso”. Insomma, per essere chiari : “O giovani Friulani, ricordatevi, che voi siete le guardie di confine della italiana civiltà”.

   Tale visione, che pur considera centrale il Friuli, appare sotto tutti i punti di vista non alternativa a quella veneto-giuliana, ma concorrente nell’affermare una visione nazionalista italiana per nulla moderata, ma aggressiva ed espansionista.

   E che sia profondamente radicata nell’immaginario politico culturale friulano lo dimostrano diversi scritti: ad esempio, molti anni dopo, precisamente nel 1922, viene pubblicato un’opuscolo: La funzione storica del Friuli10; questo risulta essere in realtà la trascrizione di una conferenza tenuta in Castello a Udine, agli ufficiali del comando Supremo, il 18 gennaio 1917, in piena guerra mondiale, da Bindo Chiurlo, fondatore della Società Filologica ed intellettuale solitamente molto misurato. Passando in rassegna la storia del Friuli, caratterizzata da unità “geografica” e di “stirpe”, con la sua “parlata romanza”, si afferma: “se, nelle guerre contro i barbari, per la sua piccolezza, la gente del Friuli dovette spesso accontentarsi di dar man forte e di offrire soltanto l’arma più vicina a ferire; se una parte di esso, il Friuli orientale, fu, da un insieme di cause, costretta a seguire i destini di casa d’Austria, il Friuli, all’infuori e al di sopra delle vicende politiche e militari, non venne mai meno alla sua funzione etnica di resistenza latina.”, “Poiché tutta la storia friulana si rifà senza coartazioni, nelle sue linee generali, sullo schema della “porta d’Italia”, e della sua istintiva resistenza contro germanesimo e slavismo”. Netta è la conclusione che ne deriva, quasi la definizione di un programma: “Né la funzione che la Natura ha assegnato al Friuli è finita, ma par oggi coronarsi della sua più fulgida pagina; e come da un lato la porta patente, dal Vipacco a Monfalcone, ha ricondotto gli eserciti d’Italia all’ultima lotta contro lo straniero, così domani si profila per la gente friulana l’ultimo compito: la assimilazione non violenta, ma per forza di carattere, dell’elemento slavo, che entrerà in misura larghissima a far parte della terra friulana. Poiché io non vi nascondo che credo destinata questa regione a restare una, compatta, essa stessa; perché il calmo ma tenace, il duro ma civile, il latino ma non chiuso a certe comprensioni dell’anima germanica e slava, carattere friulano è senza dubbio il più indicato a quest’opera di assimilazione pacifica. E il Friuli si ricomporrà in una sola unità regionale e religiosa. Deve risorgere, all’ombra materna di Roma, la “patria del Friuli” e il “patriarcato d’Aquileia”, onde sia forte, unita, compatta questa terra limitanea, questa rinnovellata marca d’Italia. Tale la nuova missione della terra friulana verso il nord e verso il nord-est, accanto a quella che avrà Trieste verso oriente”. Impressionante appare la richiesta di apertura di credito, con la guerra ancora in corso, ed anzi con Caporetto incombente, ad aspirazioni fortemente autonomistiche come la ricostituzione della Patria del Friuli e del Patriarcato di Aquileia, che trovano in ogni caso la loro contropartita in una funzione dei Friulani come “specialisti in assimilazione”.

   Ma che non sia una boutade, o una idea non condivisa da settori importanti dell’opinione pubblica, è dimostrato da uno dei primissimi documenti politici redatti in Friuli dopo la fine della guerra, presumibilmente il 7 di settembre del 191911 e che riecheggia nella sostanza gli stessi temi. Al Teatro Cecchini di Udine, infatti, si riunisce l’assemblea della sezione udinese della Associazione Nazionale Combattenti; la riduzione dei combattenti ad una organizzazione esclusivamente sciovinistica non appare corretto e, per esempio, appaiono suggestivi i possibili confronti tra il combattentismo sardo, con la significativa presenza tra i suoi leaders di Emilio Lussu, che è regionalista e da cui nascerà il Partito Sardo d’Azione e quello friulano. Tuttavia quest’ultimo appare segnato irrimediabilmente dalla presenza della questione del “confine orientale” che lo induce ad assumere una posizione di forte nazionalismo, con la presenza correlata però, come nel discorso di Chiurlo, di una forte tensione autonomistica; infatti l’Assemblea, “ritenuta l’unità geografica ed etnica della regione friulana e le identità d’interessi economici della provincia di Udine e del Friuli orientale, (…) fa voti perché l’unione di tutto il Friuli in un solo collegio elettorale venga deliberata dai competenti poteri dello Stato e sia preludio di un pieno riconoscimento dell’unità regionale del Friuli”.

   Il momento più alto di questa visione, autonomista ed antislava per essere sintetici, sostenuta da vari settori politici - un nome per tutti: Girardini - verrà raggiunto nel momento dell’effimera (1923– 1927) unificazione delle provincie di Udine e Gorizia nella Provincia del Friuli, con la chiara intenzione di diluire i voti sloveni (e, en passant, comunisti). Una volta creato lo stato totalitario, non si pone più nessun problema elettorale e lo strumento “Provincia del Friuli”, con buona pace degli ambienti “friulanisti”, perde qualsiasi importanza.

   A questo punto potremmo porci motivatamente una domanda: come mai allora in presenza di tale importante visione concorrente, il termine di “Venezia Giulia” riuscì non solo a sopravvivere e perpetuarsi, ma ad imporsi, tanto da far considerare al giorno d’oggi il concetto di Friuli orientale, assolutamente pacifico all’inizio del Novecento, come una forzatura?

   Le risposte devono essere formulate con grande prudenza e considerando diversi fattori. Una prima considerazione da farsi è che la sanzione istituzionale del termine “Venezia Giulia” come corretto, comporta un grande vantaggio: in questo caso è lo Stato, con i suoi strumenti di controllo e formazione del consenso, a creare un’identità o pseudoidentità collettiva. Inoltre il tipo di “autonomismo” friulano sopra ricordato, quello sintetizzato nella formula della “grande e piccola patria”, si giustifica, e lo abbiamo visto chiaramente, come parte di un progetto più vasto e nobile, o presunto tale: il progetto di costruzione, sviluppo, difesa della Nazione italiana, con la enne maiuscola. Questo comporta, in spiriti più portati ad ascoltare il richiamo agli “interessi superiori”, un riallineamento agli indirizzi prevalenti, e se questi comportano una rinuncia alle istanze autonomistiche, pazienza.

   In terzo luogo mentre la denominazione di Friuli, per quanto la si possa estendere e riferire a luoghi diversi, ha sempre dei limiti che sono dovuti ad un suo uso storico prolungato nei secoli, non è così per il termine “Venezia Giulia” che, essendo di fresca invenzione e dotato di “ambiguità preziosa”, può invece essere esteso a piacimento; un suo limite diventa così paradossalmente una sua forza.

   In quarto luogo, ed è elemento di grande interesse: se si applica al Friuli, e ai suoi tratti specifici, un’analisi in termini diacronici e sincronici, senza volerlo inserire a forza nel contesto e nel disegno provvidenziale della “nazione“ italiana, se cioè si segue la via di un autonomismo non secondario e derivato, si rischia di ottenere una interpretazione autonoma e non subalterna di esso; realmente e radicalmente alternativa al modello sciovinista contrassegnato dal termine “Venezia Giulia”.

   E questa è forse la peggiore “disgrazia” per chi abbia una visione del Friuli che si propone di affermare interessi che al Friuli sono estranei o avversi, con una classe dirigente subalterna o peggio eterodiretta, la quale sostiene di voler valorizzare il territorio e le sue specificità, ma a cui in realtà interessa esclusivamente la propria autoperpetuazione.

   Questo rischio e questa “disgrazia” si materializzano, subito dopo la fine della prima guerra mondiale, nelle posizioni di un intellettuale friulano, Achille Tellini, che dall’analisi della specificità del Friuli ricava una lezione opposta a quella dell’”autonomismo” sopra ricordato.

   Nelle riviste "Tesaur de Lenge Furlane" e "Patrje Ladine", scritte integralmente in friulano, con riassunto in esperanto, proporrà una visione dei Friulani, parte costitutiva della Ladinia, come nazione che deve unificarsi, dotarsi di istituzioni comuni, con una funzione storica praticamente contraria a quella sopra ricordata: costituire un’oasi di pace al centro dell’Europa, separando gli opposti imperialismi; disponibile addirittura “se la volontà unanime dei ladini non sarà sufficiente a fare riconoscere dal governo la nostra lingua” ad “unirsi con i 467.000 sloveni e croati che saranno sotto la bandiera d’Italia” oltre che con sardi, tedeschi, albanesi, francesi, ebrei, catalani e romeni ; se ciò non è sufficiente, disponibile a “promuovere la federazione di tutte le minoranze etniche di ogni stato della terra”12.

Si può ritenere con ragionevole certezza che questa sia la radice autentica del moderno autonomismo friulano, quanto di più lontano si possa immaginare da un “autonomismo secondario” al servizio del nazionalismo italiano e allo stesso tempo lontanissimo dagli incubi novecenteschi, neutralizzati ma, in modo latente, ancora presenti nel termine “Venezia Giulia”.

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NOTE  ESPLICATIVE
 
1 Tra la cospicua bibliografia, densa di riferimenti e citazioni, sintetizzando al massimo ricordo: E. Sestan Venezia Giulia : lineamenti di una storia etnica e culturale e il contesto storico-politico in cui si colloca l'opera, Udine, Del Bianco, 1997 ; nel volume, autentica miniera di informazioni: Le Identità delle Venezie (1866-1918). Confini storici, culturali, linguistici, Atti del Convegno internazionale di studi (Venezia, 8-10 febbraio 2001), a cura di T. Agostini, Roma-Padova, Antenore, 2002 soprattutto i contributi di A. Brambilla L’identità delle Venezie nel pensiero di G.I. Ascoli, pp. 77-97; A. Stussi Nazionalismo e irredentismo degli intellettuali nelle Tre Venezie, pp. 3-32 ; S. Adamo L’identità delle Venezie tra guide, memorie e libri di viaggio, pp. 135-163 ; F. Salimbeni Il mito di Venezia nella cultura giuliana tra Otto e Novecento, pp. 33-40. Sempre di A. Brambilla G.A. Ascoli e la Venezia Giulia. Nuovi appunti sulla fortuna di una definizione in Studi Goriziani 97/98, 2003 pp. 119-128 e Appunti su Graziadio Isaia Ascoli. Materiali per la storia di un intellettuale, Gorizia, Istituto giuliano di storia, cultura e documentazione, 1996; di F. Salimbeni G.I. Ascoli e la Venezia Giulia in Quaderni giuliani di storia, I, 1980, fasc.I, pp.51-68 e La Venezia Giulia e le Tre Venezie tra diversità e convergenze in Studi Goriziani, 82, 1990 pp.49-64.

2 G. Caprin L’ora di Trieste, Firenze, A. Beltrami, 1914.

3 A. Tamaro La Vénétie Julienne, Rome, Imprimerie du Sénat, 1918 la quale costituisce la prima parte di un opera in tre volumi: La Vénétie Julienne et la Dalmatie : histoire de la nation italienne sur ses frontières orientales.

4 G. I. Ascoli, Saggi ladini, in Archivio Glottologico Italiano, I, 1873 

5 G. di Caporiacco, Venezia Giulia: la regione inesistente, Reana del Rojale, Chiandetti, 1978.

6 P. Antonini Il Friuli orientale: studi, Milano, F. Vallardi, 1865. La citazione si trova a p. 534.

7 P. Antonini Del Friuli ed in particolare dei trattati da cui ebbe origine la dualità politica in questa regione : note storiche, Venezia, P. Naratovich, 1873

8 G. Marchetti, Il Friuli uomini e tempi, Udine, Del Bianco, 1974 (2.ed.). La citazione si trova a p.683.

9 P. Valussi Il Friuli: studi e reminiscenze, Milano, Tip. Internazionale, 1865. Le citazioni si trovano, nell’ordine alle p. 250, 19, 15, 76, 166.

10 B. Chiurlo La funzione storica del Friuli, Udine, Libreria Carducci, 1922. Le citazioni sono alle p. 12, 15, 23.

11 L’assemblea dei combattenti. La loro azione nelle prossime elezioni in Patria del Friuli, 8 settembre 1919, p.2

12 A. Tellini Apelo ai Ladíns in Il tesaur de lenge furlane, la citazione tradotta si trova a p. 387

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sabato 30 gennaio 2016

LEGGE ELETTORALE "ITALICUM": DEPOSITATI I RICORSI ANTI-ITALICUM IN "TUTTI" I TRIBUNALI SEDI DI DISTRETTO DI CORTE D'APPELLO D'ITALIA


 
 

LEGGE ELETTORALE 

"ITALICUM"
 
 
Depositati i ricorsi anti-Italicum in TUTTI i Tribunali sedi di distretto di Corte d'Appello d'Italia. Inclusa la Corte con sede a Trieste. 
 
 
21 dicembre 2015


Dal blog del

Senatore Felice Besostri



COMUNICATO STAMPA

 

 
(…) i ricorsi anti Italicum sono stati depositati in tutti i Tribunali sedi di distretto di Corte d’Appello d’Italia. E’ un fatto storico mai accaduto prima. La legge elettorale varata da pochi mesi è, al pari di quella precedente, incostituzionale. Gli elettori italiani non potranno esercitare il proprio diritto di voto secondo le modalità previste dalla Costituzione in modo uguale, libero e diretto come sancito dalla famosa sentenza della Corte Costituzionale nr. 1/2014.”

Il ricorso – precisa l’Avv. Enrico Colazzo – tende ad impedire che con una legge illegittima costituzionalmente si consenta che una minoranza, anche di entità minima, uscita vincente nel turno di ballottaggio, sia poi posta in grado – con l’attribuzione ad essa di 340 deputati – di controllare da sola il procedimento legislativo e finanche di modificare da sola la Costituzione e di eleggere gli organi di garanzia, dal presidente della Repubblica ai giudici della Corte costituzionale. Nemmeno durante il fascismo si è giunti a tanto.”
 
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PERCHE' L'ITALICUM
E' INCOSTITUZIONALE:

http://comitat-friul.blogspot.it/2015/12/perche-litalicum-e-incostituzionale.html

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PERCHE' L'ITALICUM DISCRIMINA
LA MINORANZA LINGUISTICA FRIULANA:

http://comitat-friul.blogspot.it/2015/04/litalicum-discrimina-la-minoranza.html
 

mercoledì 27 gennaio 2016

"AUTONOMIA SPECIALE REGIONALE. DOVE ANDREMO?" - COMUNICATO STAMPA


Comitât pe Autonomie e pal Rilanç dal Friûl
Comitato per l'Autonomia e il Rilancio del Friuli


COMUNICATO STAMPA


Autonomia speciale regionale:
 
dove andremo?


Facendo il punto:

La tutela della minoranza linguistica friulana, 600 mila cittadini della nostra regione, assieme alle altre due minoranze linguistiche regionali (sloveni e germanofoni) è l'unico motivo di specialità delle regione F-VG ma riceve un cifra infinitesima del bilancio regionale: solo lo 0,02%! E' appena il caso di far rilevare che in tutte le altre regioni europee con minoranze linguistiche riconosciute il dato è ben diverso e genera un indotto economico rilevante;

La riforma regionale degli enti locali (L.r. 26/2014 Serracchiani/Panontin) imposta dall'alto dall'attuale Giunta Regionale è contro il Friuli che ora è privo di una qualsiasi rappresentanza istituzionale: ora abbiamo 18 provincette al posto delle precedenti 4 Province. "Provincette" che oltre tutto svuotano i Comuni dei loro poteri comunali trasformando i sindaci in funzionari con la sola competenza di celebrare i matrimoni mentre Trieste (“destinataria di una quantità di denaro inimmaginabile” fino a poco tempo fa col Fondo Trieste, come ha detto la Prefetto Garuffi) avrà anche un Senatore a tutelarla, mentre la sua UTI è esattamente identica alla vecchia provincia.

La legge regionale 26/2014 è una riforma degli enti locali decisamente peggiore della legge statale (L. 56/2014 – Delrio) e introduce nella riforma regionale pesanti elementi di incostituzionalità nel momento in cui viola l'art. 5 della Costituzione italiana (principio autonomistico) e non tiene conto della sentenza nr. 50/2015 della Corte Costituzionale in cui viene affermato che le Unioni di Comuni “non sono enti locali” ma solamente associazioni comunali, ossia sono una “emanazione” dei Comuni stessi. Ai sensi di questa legge regionale i Comuni friulani non possano scegliere quale forma di associazionismo comunale adottare e se al Consiglio comunale non va bene così... arriva il commissario scelto dalla regione! Al contrario la legge statale Delrio lascia ai Comuni (con max 5.000 abitanti o 3.000 abitanti se comune montano, perchè i Comuni con un numero superiore di abitanti non hanno alcun obbligo di associarsi) il diritto di scegliere tra il costituire una Unione di Comuni o il costituire una Convenzione con i Comuni limitrofi! Facciamo notare che quest'ultima forma di associazionismo comunale creata "dal basso" dai Comuni risulta essere già molto diffusa in regione e sufficiente a produrre risparmi ed economie di scala;

La riforma regionale della sanità risulta essere deleteria per le tre Province friulane di Pordenone, Udine e Gorizia che si vedono destinatarie di tagli in base a parametri numerici che hanno come fine reale la riduzione delle prestazioni sanitarie a livelli standard più bassi;

La riforma della Cultura pare premiare soprattutto gli enti e associazioni culturali che hanno caratteristiche tipicamente triestine, ossia avere una struttura organizzativa con dipendenti fissi (la struttura più diffusa in Friuli con operatori volontari viene invece penalizzata).

Quindi qualcosa non torna poichè pur disponendo di maggiori entrate grazie all'autonomia speciale vediamo sacrificati:

- i livelli di democrazia con la legge riforma enti locali Panontin/Serracchiani

- i livelli di assistenza sanitaria ormai non più ai vertici nazionali

- i finanziamenti alla Cultura del Friuli, grazie ai regolamenti e scelte del triestino Torrenti.

Intanto prosegue l'ondata dei fallimenti ed anche nel 2015 il Friuli - Venezia Giulia "svetta" con +19,1% nel 2015 rispetto al 2014 ( dato regionale, ma riferibile per la gran parte a UD e PN).

Per il Friuli l'unico vantaggio della autonomia speciale – a questo punto - sarebbero i decimi in più di versamenti fiscali regionali che la regione si trattiene ma c'è da chiedersi come siano ripartiti! Sembrerebbe prevalentemente a Trieste considerato l'entità di fondi che la Regione destina a questa città, in analogia con le scelte relative alle riforme (UTI e città metropolitana) che sembrano tagliate su misura per la “capitale”.

Sembra di poter dire che oggi le scelte centraliste della regione F-VG siano più dannose per il Friuli di quanto farebbero le leggi nazionali! E' troppo ricordare che il senatore Tiziano Tessitori nel 1946/47 richiese l'autonomia speciale della nostra regione per il Friuli e non “contro” il Friuli?

Ma, soprattutto, visto che molti friulani e varie forze politiche si stanno rendendo conto del malessere del Friuli, è al Friuli che dovrebbero essere date risposte politiche e quindi ci domandiamo a cosa potrebbe servire rilanciare il movimento autonomista pensando di operare solo per la “difesa dell'autonomia speciale del Friuliveneziagiulia” e non soprattutto per una vera autonomia del Friuli?


Il presidente

dott. Paolo Fontanelli

26 gennaio 2016

 

domenica 24 gennaio 2016

"LE UTI? IL TRIONFO DELLA BUROCRAZIA" - Una intervista all'economista FULVIO MATTIONI pubblicata sul settimanale IL FRIULI


 
LE UTI?
 
"IL TRIONFO
 
DELLA BUROCRAZIA"

 

Una intervista

 
all'economista Fulvio Mattioni
pubblicata sul settimanale

IL FRIULI
Venerdì 18 dicembre 2015


La riforma delle Uti? "Da cambiare a stretto giro di posta, anche se uscisse indenne dai ricorsi al Tar”. E' impietosa l'analisi dell'economista Fulvio Mattioni sulla rivisitazione degli enti locali (...)
(…) Insomma, questa riforma, che andrebbe cambiata ancora prima di vedere la luce, è fatta per i burocrati e non per i cittadini e le imprese. E che questo sia un 'flop' della politica lo dimostra anche il fatto che a decidere di quello che accadrà in futuro sarà il tribunale, al quale tanti primi cittadini hanno fatto ricorso, e non i nostri rappresentanti”.
 
Dal sito internet della CISL-Udine
 


 

LE UTI? IL TRIONFO DELLA BUROCRAZIA

  
La riforma delle Uti? "Da cambiare a stretto giro di posta, anche se uscisse indenne dai ricorsi al Tar”. E' impietosa l'analisi dell'economista Fulvio Mattioni sulla rivisitazione degli enti locali, che prevede appunto la costituzione delle Uti a fronte dell'abolizione delle quattro Province del Fvg: "doveva migliorare servizi e riequilibrare i territori, ma l'unica a vincere è stata la burocrazia".
 
SPINTA DELLA CRISI. "Tale riforma - ragiona Mattioni - è venuta alla luce, dopo le 'sperimentazioni' passate sulla spinta della necessità di rispondere alla crisi della finanza pubblica. Insomma, era emerso il problema vero di spendere di meno. Tuttavia, per ottenere questo scopo, era indispensabile mettere mano al sistema composto dalla Regione e dalle sue società 'in house' da una parte e degli enti locali dall'altra. Due gli obiettivi: tagliare gli sprechi e migliorare i servizi pubblici. Vista la situazione, insomma, era indispensabile far pagare meno questi ultimi ai cittadini, il che equivale a dare loro più risorse”.

DECENTRAMENTO NECESSARIO. "Visto che - continua l'economista - gli sprechi erano imputabili soprattutto alla Regione (in caso contrario, non sarebbe servita alcuna riforma e sarebbe bastato lasciare che i Comuni razionalizzassero la propria spesa mettendosi assieme su base volontaria), si sarebbe dovuto cominciare da li. E l'unico modo di riformarla sarebbe stato quello di decentrare alcune funzioni (penso al collocamento, alle energie alternative, trasporto pubblico agricoltura, foreste e turismo) e su questa base disegnare i confini delle Unioni territoriali. All'amministrazione regionale sarebbero dovuti rimanere, salvo settori come quello dei rifiuti, dei porti, delle ferrovie, i compiti d'indirizzo e di monitoraggio. In particolare, si sarebbe dovuto puntare su una gestione più manageriale dei servizi pubblici e del welfare”.

 CAMMINO INVERSO. Invece, per Mattioni, si è fatto il cammino inverso, partendo proprio dal 'pezzo' del sistema che meno aveva bisogno di essere rivisitato: "da una parte, i Comuni avevano già preso la strada della gestione manageriale dei servizi, mentre la Regione è sempre stata caratterizzata da un modo di fare burocratico. Dall'altra, i municipi erano già entrati nell'ottica del risparmio: i trasferimenti da parte della Regione sono diminuiti, nel corso degli anni, del 30 per cento. Insomma, si è intervenuti proprio su quella parte del sistema che già era ridotta all'osso. Senza contare che, invece di tener presenti le esperienze già maturate in passato sul nostro territorio, è stata 'importata' l'impostazione Del Rio, che parte già vecchia e non ha alle spalle alcuna sperimentazione. Vista la nostra competenza primaria in materia di enti locali, si sarebbe potuto 'partorire' qualcosa di meglio”.
Un altro tema è quello del riequilibrio territoriale, "che è contenuto - ricorda Mattioni - anche nel nostro Statuto regionale. Si tratta di un obiettivo importante: è ciò che garantisce che a tutti i cittadini siano dati gli stessi servizi e allo stesso costo. Invece di creare un 'colosso', ovvero l'Uti triestina i cui confini ricalcano quelli dell'ormai ex Provincia, e 17 'nanetti', si sarebbero dovute creare almeno altre due aree urbane di grandi dimensioni (Udine e Pordenone) e, accanto a queste, altri pochi enti leggermente più piccoli. Invece, ci troviamo davanti al Golia triestino, che per le sue dimensioni rischia di attirare la gran parte degli investimenti, e di 17 Davide che avranno difficoltà a garantire tutti i servizi necessari ai propri cittadini”.

 FLOP DELLA POLITICA. Chi ci guadagna da tutto questo pare essere solamente la burocrazia. "Già in passato - conclude Mattioni - il comparto unico, costato 470 milioni, aveva reso meno elastici ed efficienti i municipi (tolto il collocamento passato alle Province per una norma nazionale, la mobilità dei dipendenti pubblici ha riguardato ben 16 persone). Ora i sindaci, gli unici che il cittadino può 'tirare per la giacchetta' in caso di disservizi e non coinvolti nella stesura del testo, si trovano ad aver a che fare con un livello burocratico in più.

Insomma, questa riforma, che andrebbe cambiata ancora prima di vedere la luce, è fatta per i burocrati e non per i cittadini e le imprese. E che questo sia un 'flop' della politica lo dimostra anche il fatto che a decidere di quello che accadrà in futuro sarà il tribunale, al quale tanti primi cittadini hanno fatto ricorso, e non i nostri rappresentanti”.   

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mercoledì 20 gennaio 2016

REGIONE: IL RUOLO DEI SINDACI E' SOLO QUELLO DI CELEBRARE MATRIMONI E DECIDERE LE FERIE DEL PERSONALE?



REGIONE


IL RUOLO DEI SINDACI

E' SOLO QUELLO

DI CELEBRARE MATRIMONI

E DECIDERE

LE FERIE DEL PERSONALE?


PER L'ASSESSORE PANONTIN

PARE PROPRIO DI SI'....



Dal quotidiano IL MESSAGGERO VENETO (Ud) – 19 gennaio 2016 – articolo a firma di Maura Delle Case

Personale, aut aut di Anci e sindacati: «La riforma del Comparto non va»


UDINE - 19 gennaio 2016

«Ai sindaci tra poco non resterà che celebrare matrimoni».
Forza la mano Mafalda Ferletti, segretaria generale della funzione pubblica di Cgil, per denunciare l’effetto del combinato disposto di due riforme della giunta Serracchiani.

Distinte ma legate a doppio filo. Quella degli enti locali, già in vigore, e quella del Comparto unico la cui bozza è stata oggetto ieri mattina di un incontro tra l’assessore regionale Paolo Panontin, le parti sociali e datoriali.

«L’effetto del combinato disposto – dichiara Ferletti – è quello di azzerare il ruolo dei sindaci. (…).

Non ne usa  (ironia n.d.r.) invece il presidente di Anci Fvg, Mario Pezzetta, che di fronte alla bozza del ddl punta i piedi.

«La riforma del Comparto unico così com’è stata concepita toglie ai Comuni il fondamentale ruolo di datori di lavoro», afferma Pezzetta che a Panontin dà l’aut aut: «Condizione sine qua non perché Anci si sieda al tavolo per discutere la legge è che la Regione si prenda l’impegno di correggere questa criticità fondamentale, che – denuncia l’ex sindaco di Tavagnacco – esautora i Comuni del loro ruolo datoriale». (...)


LEGGI TUTTO L'ARTICOLO



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PRO-MEMORIA

PER L'ASSESSORE PANONTIN
E LA PRESIDENTE SERRACCHIANI

ART. 5 DELLA COSTITUZIONE ITALIANA:

PRINCIPIO AUTONOMISTICO


Dal Blog
"Impariamo la Costituzione"


 "L’articolo 5 introduce, in via di principio, la garanzia di un’ampia libertà conferita alle diverse collettività territoriali nel perseguimento e nella gestione di interessi locali, mediante il riconoscimento di una posizione di autonomia in favore dei rispettivi enti esponenziali. Con l’articolo 5 il principio autonomistico da modello organizzativo è elevato a principio fondamentale dell’ORDINAMENTO COSTITUZIONALE."