Udine, Piazza Libertà, con in primo piano la bandiera del Friuli
Foto di Roberta Michieli
Foto di Roberta Michieli
REGIONE
FRIULI-VG
2008-2018:
fine della crisi
o
fine di un territorio?
Una
via credibile per uscire
da
una situazione disastrosa.
di
Sandro Fabbro
Sono
passati dieci anni dal fatidico anno di avvio di una crisi lunga e
severa. La nostra regione ed il Friuli in particolare, l’hanno
subita duramente. Ma ne stiamo uscendo? E se sì, ne stiamo uscendo
bene? Importanti
soggetti pubblici e privati diffondono messaggi molto rassicuranti:
“Il Friuli corre più del Veneto”, titolava il 24 gennaio il MV
a presentazione di un rapporto, corredato anche da commenti
entusiastici di alcuni analisti economici, sulla buona performance
delle 500 imprese regionali più grandi. Un altro rapporto, quello
della Regione sul mercato del lavoro 2017, segnala che, non solo
siamo tornati al tasso di occupati del pre-crisi (non importa se con
lavori più precari e saltuari e con un monte ore lavorate del tutto
inferiore), ma, addirittura, che le imprese stanno cercando
lavoratori e non li trovano (per ben 20mila posti di lavoro sembra).
Ma
agli analisti economici, alla stampa e, soprattutto, alla Regione non
dovrebbe sfuggire che la “ripresa” del FVG, se c’è, vale per
una parte minima del territorio e delle imprese regionali
(prevalentemente imprese esportatrici) ma non per tutto il
tessuto produttivo (91mila imprese attive nel 2016) né per tutto il
sistema sociale e territoriale regionale che continua, invece, a
registrare una “contrazione” strutturale nel suo complesso e, in
alcune sue parti, anche molto severa.
Il
dato vero, cioè, è che, se
la crisi si sta ritirando, ciò avviene, in FVG, troppo in ritardo,
più lentamente della media nazionale
e lasciando indietro parti importanti di società, di territorio e di
economie locali.
Il
Pil regionale,
dopo anni di valori negativi e peggiori della media nazionale (-8,2%
in FVG, dal 2008 al 2016, a fronte del -6,8% in Italia, ma dove il
Trentino Alto Adige è invece cresciuto di quasi il 3%), si è
portato, negli ultimi anni, sopra lo zero ma, nel
2016, è cresciuto appena dello 0,5% a fronte di un Pil nazionale
cresciuto dello 0,9%.
L’occupazione, a partire dal 2014, anno del picco negativo, ha
cominciato a riprendersi ma con una velocità inferiore a quella
nazionale (al 17° posto, tra le regioni italiane). Dopo
i numeri negativi degli anni prima, nel 2016 abbiamo perso ancora, a
saldo, altre 642 imprese!
Ma ciò che deve preoccupare di più chi guarda alla tenuta
complessiva del sistema FVG, è l’emergenza demografica determinata
dai quattro
flagelli biblici
che operano ormai congiuntamente:
denatalità,
invecchiamento, spopolamento e nuova emigrazione.
C’erano anche prima della crisi, certo. Ma l’esodo di persone
verso l’estero, in particolare di giovani, in percentuale pari al
doppio di quella italiana (rapporto Italiani nel Mondo, 2016) e
indici di vecchiaia ormai tra i più alti d’Europa, sono
decisamente peggiorati a seguito della crisi. I
“danni” di dieci anni di crisi, stanno, quindi, diventando
“cronici” e di “sistema” e stanno assumendo un carattere
permanente e pervasivo.
L’impoverimento economico si sta trasformando, cioè, in degrado
del “capitale territoriale” complessivo (umano, ambientale,
insediativo) e ciò rende, quei danni, più difficilmente rimovibili.
La
prima cosa da fare è, quindi, non esaltarsi al primo indicatore
positivo né tantomeno sparare proposte a casaccio ma capire bene le
ragioni di questo stato di cose.
Prima
di tutto, bisogna capire perché il FVG sia andato peggio della media
italiana e ne stia uscendo più lentamente. Non
credo, come si è sostenuto per anni, che il sistema produttivo
regionale abbia particolari colpe. O almeno non ne ha in misura
superiore ad altre aree e regioni. Guardiamo
invece cosa ha fatto la Regione. In questi dieci anni di crisi,
le politiche regionali sono rimaste pressoché quelle storiche ma con
meno risorse e con investimenti sul territorio ridotti della metà
(in FVG, ben un miliardo di investimenti pubblici in meno, stima la
CGIA di Mestre) che, messi nei settori giusti, ne potevano attivare
altri due o tre di privati. La Regione,
cioè, prima non ha “visto” la crisi e poi, quando l’ha vista,
non l’ha contrastata. In una prima fase cioè, diciamo
fino al 2011, l’ha rimossa (l’obiettivo principale era ridurre il
debito regionale e non tanto rilanciare l’economia). Poi, dal 2011,
ha accettato, senza fiatare, le pesanti contribuzioni che i governi
nazionali, a vario titolo, le hanno imposto e che ne hanno decurtato,
di diversi miliardi, la capacità di spesa (si vedano i dati
presentati, nel convegno AFE del 3 marzo 2017, dall’ex consigliere
regionale G. Cavallo e disponibili in rete, ma anche quanto sostiene,
nel suo sito web, G. Moretton, già vicepresidente della Regione FVG
nella Giunta Illy). La Regione, cioè, pur sapendo che la crisi
imperversava, non l’ha contrastata! E non
l’ha fatto perché ha “dovuto” contribuire (sembra
in misura doppia rispetto a quanto le sarebbe spettato di dare),
al risanamento del debito pubblico nazionale. Doveva farlo? E proprio
in quella misura? E contro gli interessi della regione?
Una risposta ora non risolverà i danni prodotti negli anni ma almeno
chiarirà che, dietro i nostri problemi di
oggi, non c’è un destino cinico e baro ma ci sono colpe politiche
e personali ben precise che potevano essere assolutamente evitate.
La
conclusione è che, quel differenziale di emergenza demografica e
socioeconomica e di ritardo nell’uscita dalla crisi di cui si è
detto sopra, sono dovuti ad una mancata risposta, alla crisi, nei
tempi e nei modi dovuti, da parte di chi ha governato la Regione
Autonoma FVG.
Con
che diritto, quindi, le maggioranze di centro-destra e di
centro-sinistra, responsabili di questo “decennio perduto”,
parlano di Autonomia, se non l’hanno usata per contrastare la crisi
in atto? Con che diritto propongono nuove politiche di
sviluppo (da “fabbrica 4.0”, alla salvifica “nuova via della
seta”; dal rilancio della filiera turistica a quella agroalimentare
ecc.) se, prima di tutto, non si chiedono perché siamo andati peggio
della media nazionale e perché stiamo uscendo tardi e male dalla
crisi? Senza risposta a queste domande ogni proposta preelettorale
sulle nuove politiche socioeconomiche regionali va rigettata perché
evasiva o salottiera. Poniamo, invece, noi queste domande ai prossimi
candidati alla presidenza della Regione e imponiamo, come
autonomisti, una nostra agenda politico-economica credibile. L’unico
serio programma di fuoriuscita dalla crisi è quello che: a. prima di
tutto ristabilisce la verità delle cose e chiarisce perché oggi il
FVG non può vantare performance simili a quelle del Trentino AA; b.
si pone seriamente il problema di ripristinare in pochi anni (per
evitare la cronicizzazione dei problemi) le necessarie condizioni di
base –in primis demografiche e di coesione sociale e territoriale-
per ripartire. A tal fine, un massiccio e tempestivo piano
straordinario di investimenti (da finanziare fermando l’emorragia
finanziaria verso lo stato, richiedendo indietro almeno parte del
maltolto e attivando tutte le risorse pubbliche e private che si
possono attivare) destinato a rendere più sicuro, efficiente e
attrattivo, il nostro territorio, può generare migliaia di nuovi
posti di lavoro per giovani, donne e disoccupati.
Udine,
20 febbraio 2018
.............
Il Prof. Sandro Fabbro, che ringraziamo per averci concesso la pubblicazione della sua precisa e puntale analisi economica e politica, è docente presso l'Università di Udine. Dal 1995 tiene corsi di Pianificazione territoriale, di Politiche urbane e territoriali e di Tecnica Urbanistica presso i Corsi di Laurea in Ingegneria Civile ed in Ingegneria dell'Ambiente e delle Risorse e di Urbanistica presso il Corso di Laurea in Scienza dell'Architettura.
La
Redazione del Blog
Non servono commenti tanto è "illuminante" l'analisi del Prof. Sandro Fabbro!! Bravo!
RispondiEliminaQuesta crisi, in regione ha colpito particolarmente il Friuli (province di Udine, Pordenone e Gorizia) aggravando di molto la "questione Friuli".
RispondiEliminaTrieste si è invece salvata da questa crisi soprattutto grazie a due fattori: 1) è una città di dipendenti pubblici e pensionati che notoriamente non subiscono licenziamenti... 2) ha ottenuto finanziamenti regionali e statali in misura maggiore del resto della regione: questo ha reso possibile investimenti che non ci sono invece stati in Friuli.
Trieste dunque ha patito la crisi in maniera di gran lungo minore del resto della regione. Ora il Friuli, alle prossime elezione regionali del 29 aprile 2018, dovrà scegliere una classe politica regionale più attenta ad una più equa distribuzione dei finanziamenti sul territorio e meno triestinocentrica.