giovedì 10 aprile 2014

1914/1918 - CENT'ANNI FA IL FRIULI NELLA GRANDE GUERRA : "IL SUICIDIO DELLA CIVILTA' EUROPEA" di GIORGIO BANCHIG

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1914/1918 - CENT'ANNI FA
 
IL FRIULI NELLA
 
 
GRANDE GUERRA


La Redazione del Blog ringrazia lo storico Giorgio Banchig per averle concesso la pubblicazione di due suoi articoli apparsi sul quindicinale DOM nel marzo 2014
 
 

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IL SUICIDIO DELLA
 
CIVILTA' EUROPEA

 
di
 
 
Giorgio Banchig
 
 
Cent’anni fa l’inizio della Grande guerra che incendiò l’Europa e coinvolse numerosi stati di tutto il mondo
 
Il suicidio della civiltà europea
 
Ricordare il centesimo anniversario dello scoppio della Prima guerra mondiale e ripercorrere le tappe che portarono all’«inutile strage», come ebbe a definire il conflitto Benedetto XV appena eletto papa, è come rivedere in bianco/nero e in costumi d'epoca personaggi, manifestazioni di piazza e scenari, risentire dibattiti e rileggere articoli dei giornali di questi ultimi 25 anni durante i quali qua e là, dall'Afganistan all'Iraq, dal Medio oriente alla Penisola balcanica e oggi all’Ucraina si sono accesi i sinistri bagliori della guerra.
Anche cent'anni fa la diplomazia si arrese, si accusò gli oppositori alla guerra di essere contro le varie patrie, si credette di risolvere i contrasti in brevissimo tempo e con poche vittime, ci si illuse di limitare al massimo il numero degli stati interessati e l'area degli scontri. Così non è stato in questi anni, così non fu cent'anni fa, quando, sono sempre le parole di Benedetto XV, si arrivò al «suicidio della civiltà europea».
Lungo i fronti che dal 1914 al 1918 hanno diviso l’Europa e coinvolto, direttamente o indirettamente, un gran numero di stati di tutto il mondo si sta programmando una lunga serie di iniziative per ricordare i cento anni della Grande guerra, una memoria doverosa che sarà utile se contribuirà ad estirpare definitivamente le radici di quella pazzia che portò alla morte di milioni di giovani vite.
Dom con una serie di contributi ripercorrerà le tappe di quel conflitto supplendo parzialmente alla mancanza di iniziative e all’apatia che sta caratterizzando le amministrazioni pubbliche della Slavia verso questo centenario.
 
La scintilla scoccò nei Balcani
 
La scintilla che diede inizio a questo «suicidio» scoccò il 28 giugno 1914, quando a Sarajevo, capitale della Bosnia annessa all'Impero austro-ungarico appena sette anni prima, Gravrilo Princip uccise l'arciduca Franz Ferdinand, erede al trono, e la moglie Sofia, principessa di Hohemberg, già contessa Choteck. Nel delitto l'Austria vide la complicità della Serbia in quanto l'attentatore proveniva dai circoli irredentistici, collegati con Belgrado, che vedevano nell'arciduca un oppositore all'unione degli slavi del sud. La reazione dell'Austria non si fece attendere e fu dura.
Era la sera del 23 luglio quando il barone Vladimir Giels consegnava a Belgrado l'ultimatum dell'Impero austro-ungarico al regno della Serbia. Si trattava di un documento umiliante ed inaccettabile per uno stato sovrano, in quanto si chiedeva al governo serbo la collaborazione dei rappresentanti dell'Impero nelle indagini sui responsabili del complotto. La Serbia non accettò questa clausola e la sera stessa vennero rotti i rapporti diplomatici tra i due stati. Per evitare il conflitto si interposero tra i contendenti Russia e Inghilterra; fu proposta anche una conferenza di plenipotenziari di vari stati europei a Londra. Tutto fu inutile.
Alle ore 11.10 del 28 luglio l'Austria dichiarò guerra alla Serbia.
Seguirono giorni di ulteriori trattative e di consultazioni tra le cancellerie europee per evitare l'allargamento del conflitto ad altre nazioni. Ma intanto tutti misero in moto la macchina bellica, in particolare la Russia che si pose a fianco della Serbia. Dal 1° agosto, in pochi giorni ci fu una lunga serie di dichiarazioni di guerra tra gli Imperi centrali e loro alleati contro gli stati che aderirono, una reazione a catena senza fine che incendierà o comunque coinvolgerà buona parte degli stati del pianeta.
 
La neutralità dell'Italia e i riflessi in Friuli
 
L'Italia conobbe l'ultimatum dell'Austria alla Serbia venerdì 24 luglio. Con esso veniva violato il trattato della Triplice alleanza, stipulato da Austria, Germania e Regno sabaudo nel 1882 e successivamente modificato, che aveva carattere difensivo e prevedeva una “benevola” neutralità da parte dei contraenti se uno di loro avesse dichiarato guerra ad un'altra potenza. Il primo atto di neutralità si ebbe il 3 agosto con un comunicato ufficiale del consiglio dei ministri italiano, presieduto da Antonio Salandra.
Questa presa di posizione raffreddò i rapporti tra l'Italia e gli Imperi centrali che speravano in un'entrata in guerra del Regno sabaudo al loro fianco e pose fine alle dimostrazioni di simpatia che in quel periodo si ripetevano a Gorizia e nel Cervignanese, allora sotto l'Austria, nei confronti degli italiani.
Il rumore delle armi, che proveniva da molto vicino ed era esteso alle maggiori potenze d'Europa, fece gradualmente cadere ogni illusione sulla possibilità di mantenere l'Italia ad di fuori della guerra. I comandi militari cominciarono ad agire di conseguenza: vennero richiamate alle armi le classi 1889 e 1990 e venne stabilito che alcuni territori delle province di confine dovevano ritenersi soggetti a polizia militare. Per la provincia di Udine erano interessati a questo regime tutti i comuni compresi nei distretti amministrativi di Ampezzo, Cividale, Codroipo, Gemona, Latisana, Maniago, Moggio, Palmanova, Pordenone, San Daniele, San Pietro al Natisone, Spilimbergo, Tarcento, Tolmezzo e Udine. Su questo territorio era vietato di eseguire rilievi, disegni, fotografie concernenti fortificazioni, siti e materiali militari.
 
Il rientro degli emigranti stagionali
 
Lo scoppio della guerra ebbe conseguenze drammatiche per il Friuli. Fin dai primi giorni di agosto del 1914 iniziò il rimpatrio di migliaia e migliaia di emigranti stagionali del Friuli che lavoravano nelle fornaci, nelle miniere, nelle filande, nei cantieri edili dell'Impero austriaco. In pochi giorni arrivò a Pontebba, allora al confine, una massa di lavoratori, che si erano messi in fuga senza percepire il salario, corrisposto normalmente a fine contratto. La stagione migratoria del 1914, sia per lo stentato avvio che per la sua brusca interruzione, fruttò agli operai circa 17 milioni di lire contro i 30 che erano soliti riportare a casa negli anni precedenti. Fino all'ottobre di quell'anno rientrarono in Friuli circa 62 mila emigranti, che a fine anno salirono ad oltre 83 mila (dei quali quasi 59 mila erano classificati disoccupati e oltre 43 mila bisognosi). Di fronte a questa grave situazione il comune di Udine già il 7 agosto deliberò di «concedere apposito locale per ricovero temporaneo» degli emigranti, di istituire una commissione per la sorveglianza dei prezzi, che si impennarono improvvisamente, e di prendere tutti i provvedimenti necessari per combattere la disoccupazione.
Anche i parlamentari friulani, riuniti il 12 agosto nel palazzo della provincia, in un memoriale chiesero al governo un intervento a sostegno di questi diseredati.
 
L'atteggiamento verso la guerra
 
Complice anche la grave situazione economica, si diffuse in Friuli un atteggiamento «neutralista» o nettamente contrario all'ingresso dell'Italia nella guerra. I neutralisti appartenevano ad una largo settore politico: dai cattolici ai socialisti ed ai borghesi liberali. La popolazione aveva un atteggiamento riservato, ma prevalentemente avverso alla guerra. Di questo sentire si fece interprete l'arcivescovo di Udine, mons. Antonio Anastasio Rossi, che difese la neutralità e si pronunciò per il negoziato come metodo più opportuno per ottenere il soddisfacimento delle legittime aspirazioni italiane. I sacerdoti furono convinti «pacifisti» e per questa loro posizione furono tacciati di antipatriottismo.
A favore della guerra si erano schierati alcuni liberali della destra storica, alcuni circoli massonici e una frangia di socialisti.
 
Gli irredentisti a Udine
 
Ad allargare, invece, la fascia di coloro che sostenevano l'entrata dell'Italia in guerra furono le centinaia di irredentisti goriziani e triestini che si erano rifugiati a Udine. Il passaggio del confine avveniva dapprima attraverso le lagune. Vaporetti della navigazione triestina, complice l'allora semplice ufficiale della marina, Nazario Sauro, approdavano a Porto Nogaro per non fare ritorno in Austria. Per la fuga gli irredentisti si servirono anche di navi per il trasporti di carbone. Da San Giorgio di Nogaro i fuoriusciti si concentravano a Udine, dove già nell'agosto del 1914 sorse il primo nucleo organizzato che andò via via ingrossando.
Altri arrivarono via terra con passaporti falsi o passando il confine di notte.
A Udine l'organizzazione degli irredentisti, guidata da Carlo Banelli, trovò appoggi, sostegni e finanziamenti. La «Delegazione e assistenza dei profughi», così si chiamava il gruppo dei fuoriusciti, ebbe sede dapprima in via della Prefettura, negli uffici di Ugo Zilli presso la Camera di commercio, poi, quando il suo numero si allargò, si spostò in piazzetta Valentinis.
Dall'ottobre 1914 l'organizzazione pubblicò il settimanale «Ora o mai», diretto da Romeo Battistig, goriziano di origini, veneziano di nascita e naturalizzato udinese, sul quale si propugnava con toni accesi l'intervento dell'Italia a fianco dell'Intesa contro gli imperi centrali per conquistare le terre «irredente» del Trentino della Venezia Giulia con Gorizia, Trieste, l'Istria, Fiume e parte della Dalmazia. I giovani più infervorati della «Delegazione e assistenza dei profughi» promossero numerose manifestazioni per ottenere l'intervento dell'Italia.
Il 30 novembre al teatro Minerva di Udine parlò Cesare Battisti (era suo il motto «Ora o mai» che diventò il titolo del giornale interventista), il quale sostenne la necessità di scendere in guerra «per la difesa della libertà dei figli irredenti» che nel Trentino erano «aggiogati al dispotismo tedesco, nell'Adriatico alla prepotenza slava, e nell'Ungheria a quella magiara».
Per spingere l'Italia all'intervento i fuoriusciti austriaci pensarono perfino di organizzare un incidente di frontiera con un'azione dimostrativa che sarebbe dovuta avvenire a Cormons. Non se ne fece nulla per l'intervento del presidente del Consiglio, Antonio Salandra. Ma l’idea non fu abbandonata perché la sera del 2 aprile 1915, Venerdì santo, Giovanni Giurati e Giuseppe Sillani fecero una ricognizione nella valle del Judrio con l’intenzione di progettare un assalto alla caserma della guardia di finanza austriaca e poi di salire sul Korada insieme ad alcuni reparti italiani presenti nella valle. Sulla strada del ritorno i due vennero fermati dai carabinieri a Castelmonte, portati a Cividale e rilasciati dopo qualche ora per intervento della questura di Venezia.
 
La rete spionistica
 
Prima dell'entrata in guerra dell'Italia, Udine e il Friuli, oltre ad accogliere le organizzazioni degli irredentisti, furono teatro di una fitta ed efficace rete spionistica. Da una parte l'Austria voleva conoscere i piani delle fortificazioni che l'Italia stava costruendo già da qualche tempo in Friuli, in particolare a Ragogna e a Pinzano, dall'altra parte l'esercito italiano, messo in allarme dai movimenti irredentisti della Venezia Giulia, mirava ad entrare in possesso dei progetti militari che l'Austria stava realizzando lungo la frontiera dal Predil all'Adriatico.
Dal 1913 alla data della dichiarazione della guerra ben 13 informatori austriaci o supposti tali vennero processati dalla Corte d'Assise di Udine. Di essi solo cinque vennero assolti per insufficienza di prove.
Da parte sua l'Italia aveva reclutato numerosi informatori tra gli irredentisti, che facevano capo all'insospettabile Comitato udinese della «Dante Alighieri», presieduto dal garibaldino Luigi Carlo Schiavi. Alla Dante Alighieri arrivavano numerose notizie sugli armamenti navali e terrestri che l'Austria stava approntando nella Venezia Giulia, in Istria e lungo la costa dalmata.
Della rete di informatori fecero parte anche alcune persone delle Valli del Natisone. Alla prefettura di Udine furono rinvenuti documenti relativi a Carlo Jussig di Azzida che era funzionario delle poste di San Pietro al Natisone. Qualche anno prima della guerra riuscì a fornire utili notizie sui preparativi austriaci a Tolmino e a Caporetto dove nel 1912 fu arrestato per spionaggio ed espulso dal territorio austriaco. Riuscì a ritornarvi poco prima che scoppiasse la guerra e, giovandosi delle conoscenze che aveva, continuò a inviare informazioni utili alle autorità italiane. Un altro informatore era don Giovanni Gujon, cappellano di San Volfango, che inoltrava i rapporti al comande della divisione Cavalleria di Udine. Pochi giorni prima dell’inizio delle ostilità, richiesto se corrispondeva al vero che nella valle dell’Isonzo erano stanziati 80mila militari, rispose che ve n’erano appena 80, in quanto la zona era stata del tutto sguarnita dall’esercito austro-ungarico.
 
Le fortificazioni militari

Non è un mistero che la Triplice alleanza, stipulata dall'Italia con Austria e Germania nel 1882, non era altro che un matrimonio di interesse. Le questioni lasciate aperte con l'Impero asburgico dalla Terza guerra d'indipendenza (1866) rimanevano di estrema attualità, in particolare, per il Regno sabaudo, la conquista di Trento e di Trieste. Che il confine dallo Stelvio all'Adriatico fosse caldo per entrambi gli stati è dimostrato dal fatto che ben prima che si parlasse della Prima guerra mondiale entrambi i governi pensarono bene di approntare fortificazioni lungo la frontiera. Lo stesso imperatore Franz Jozef incoraggiava gli armamenti lungo il confine italiano. Dallo Stelvio al mare vennero realizzate una ventina di guarnigioni. Opere militari furono costruite a Kanal, Plava, Bovec e Šaga. Nel 1911 venne aperta la strada Idrsko-Livek nella valle dell'Isonzo. Già in quell'anno l'arciduca d'Austria Ludwig salì sul Matajur, sul Kolovrat e sul Korada.
L'Italia si accorse della necessità di fortificare la frontiera nord-orientale con un certo ritardo. Solo negli anni 1911-12 le richieste di armamenti in Friuli si fecero più insistenti e venne proposta la costruzione della ferrovia Maniago-Longarone e Meduno-Socchieve. In seguito furono costruiti le fortificazioni di Colloredo di Montalbano, monte Bernadia, Pinzano, monte di Ragogna, Tricesimo, Fagagna, Santa Margherita del Gruagno, Rivolto; a Codroipo e a Latisana furono realizzate due teste di ponte. Allo scoppio della guerra rimanevano quasi del tutto scoperte le Valli del Torre e del Natisone. Appena il 10 ottobre 1914 il parroco di San Leonardo, don Giovanni Petricig, nel Libro storico annotò: «Oggi 150 bersaglieri principiano il tronco di strada da Jainich al monte Spich. Questi soldati, che sono d’alloggio a Scrutto, lavorano anche di domenica». Questo ritardo si rivelò in tutta la sua gravità nell'ottobre del 1917, quando le truppe austro-germaniche sfondarono nella Valle dell'Isonzo. E fu la rotta di Caporetto.
 
Giorgio Banchig
(Dom, 5-6/2014)

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